Palestina al voto: Hamas al 35% e Sharon sorride

Massimo Introvigne

Il 2006 ci porterà - salvo rinvii dell’ultimo minuto - le prime elezioni politiche palestinesi, il 25 gennaio. A differenza delle presidenziali, ma come nelle municipali, a queste elezioni parteciperà Hamas, che detiene il record mondiale di attentati suicidi e ha nel suo Statuto una norma che la impegna a non cessare la lotta fino a quando lo Stato di Israele non avrà smesso di esistere. Il Congresso degli Stati Uniti ha votato un’esortazione all’Autorità nazionale palestinese perché non lasci partecipare alle elezioni chi nega il diritto di Israele all’esistenza e mantiene legami con milizie che praticano il terrorismo. La seconda condizione è irrealistica, perché anche i nazionalisti laici di Fatah hanno solidi legami con le Brigate dei Martiri Al Aqsa e con i Comitati popolari per la Resistenza, protagonisti di numerosi attentati suicidi. Ma per escludere chi nega il diritto all’esistenza di Israele c’è una solita base giuridica negli accordi di Oslo, e anche la pavida Unione europea l’ha ricordato ai palestinesi.
Tuttavia - come nota il più autorevole settimanale israeliano, The Jerusalem Report - il governo Sharon «ha deciso di non piantare troppe grane» sulla partecipazione di Hamas alle elezioni. Anzi, fra i partiti in lizza, prosegue il settimanale, «Hamas è il solo che gli ispira rispetto». Secondo i sondaggi Hamas alle elezioni, in assenza di brogli, si attesterà intorno al 35 per cento. Il problema tuttavia non è quanti dei 134 seggi del Parlamento palestinese andranno ad Hamas. È che l’organizzazione ultra-fondamentalista sembra a Sharon, per citare ancora The Jerusalem Report, il solo «movimento unito e affidabile» in una Palestina dove gli altri partiti sembrano piuttosto bande i cui leader cercano di assassinarsi a vicenda per le strade.
Anche se all’interno del governo e dei servizi israeliani esistono divisioni, Sharon ha deciso di fare un passo indietro, riaprendo quei discreti canali di comunicazione con la componente “treguista” di Hamas che esistevano prima dell’11 settembre 2001 e della guerra in Irak. I “treguisti” in Hamas coniugano la poesia della retorica secondo cui non ci sarà mai pace con Israele con la prosa del pragmatismo secondo cui con lo Stato ebraico si può, a determinate condizioni, stabilire una «tregua» che potrebbe durare anche a tempo indeterminato. Tradizionalmente, Hamas nei territori era “treguista” e Hamas in esilio era per la distruzione di Israele senza se e senza ma. Il fondatore di Hamas, Yasin, è stato lasciato a lungo in vita dagli israeliani perché considerato “treguista”, ma eliminato quando nel 2004 si è avvicinato ai radicali. Il capofila dei “treguisti”, Ismail Hania, guida la lista elettorale di Hamas per il 25 gennaio, mentre il leader dei radicali in esilio, Khaled Mashaal, preferisce inneggiare alla distruzione di Israele da Teheran insieme al presidente iraniano Ahmadinejad. Il primo mashaaliano nella lista elettorale, Mahmoud Zahar, è solo al nono posto tra i candidati, e tra questi ci sono un cristiano, un dirigente laico storico di Fatah che si presenta con Hamas come indipendente (Abu Amr), e undici donne.


Per il Likud e per una parte delle organizzazioni ebraiche all’estero tutto questo è solo un gioco delle parti: tutta Hamas è una banda di assassini con cui non si deve neppure pensare di trattare, e se Hamas entrasse nel futuro governo palestinese tutto l’Occidente dovrebbe rompere con la Palestina. Molti segnali indicano però che Sharon, senza troppo dirlo, la pensa diversamente.

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