Israele è di nuovo in guerra. Non tanto ormai per liberare il suo soldato rapito dai guerriglieri palestinesi, ma per cercare di mettere fine a un’offensiva missilistica che, da irritante azione di frontiera, si è trasformata in attacco a uno dei punti nevralgici dello Stato ebraico: il porto di Ashkelon. Ora la difficoltà per il governo di Gerusalemme è di dover combattere due guerre contemporaneamente: una psicologica e l’altra militare. La prima l’ha già persa, avendo inizialmente giustificato l’attacco con la liberazione del caporale Shalit. Questo ha focalizzato l’attenzione dei media internazionali su una vicenda umana che ha minimizzato il significato dell’attacco missilistico cui lo Stato ebraico è sottoposto. Un’azione ostile che nessuno Paese sarebbe disposto ad accettare e che il governo palestinese (si fa per dire) non è in grado di fermare. È stato un errore di lettura della mappa politica e militare del premier israeliano Olmert, che probabilmente un generale spregiudicato e dai nervi d’acciaio come Sharon non avrebbe commesso. Errore che ha polarizzato l’opinione politica (vedi fra l’altro le dichiarazioni italiane ed europee) sulla sproporzione della risposta militare israeliana al semplice rapimento di un soldato invece che sul gravissimo pericolo, per Israele, dei missili.
La risposta militare israeliana non solo non è sproporzionata, ma legittima, perché per Israele mettere fine al pericolo missilistico palestinese sta diventando una questione di importanza primaria, se si pensa che, con un allungamento di gittata di una quindicina di chilometri, questi missili possono colpire Tel Aviv, e soprattutto il suo aeroporto internazionale. Entrato o trascinato in questa guerra, Olmert deve ora condurla senza esitazione, perché, come diceva Churchill, in guerra l’unica linea politica possibile è dettata dalla determinazione.
Il pericolo è che essa, da scontro locale, si trasformi in scontro regionale, dal momento che, se ad azionare i missili palestinesi sono i terroristi affiliati a formazioni come il «Comitato della resistenza popolare», i mandanti e fornitori di armi e soldi risiedono a Damasco e a Teheran. Di conseguenza, se le sorti delle armi sono come sempre nelle mani di quella che Machiavelli chiamava «fortuna», i movimenti degli attori in questa nuova fase di lotta sembrano abbastanza prevedibili.
1) Israele non può fermare la sua offensiva prima di avere allontanato fisicamente il pericolo dei missili dal cuore dello Stato; d’altra parte l’offensiva sembra mirare, a sud, a ristabilire un certo controllo su quel «corridoio» detto di «Philadelphia», possibilmente in collaborazione con l’Egitto (che ha schierato dalla sua parte della frontiera 4mila uomini per bloccare l’entrata dei «fratelli» palestinesi sul suo territorio), corridoio attraverso il quale arrivano rifornimenti di ogni genere ai combattenti palestinesi.
2) I governi arabi - incluso quello di Hamas - cercheranno di bloccare la rioccupazione di Gaza (liberata per Israele dal peso politico dei coloni) in cambio della restituzione del militare, cosa non facile perché sia Hamas sia il presidente palestinese Abu Mazen non hanno l’autorità sui gruppi terroristici che operano contro Israele. Quanto ai governi arabi, il sostegno alla causa palestinese è ormai diventato la ricorrente giustificazione delle folle per scendere nelle strade e manifestare contro i propri governanti.
3) Se Egitto, Giordania e Siria dovessero a loro volta essere trascinate nel conflitto con Israele, l’intera situazione medio-orientale diventerebbe incontrollabile, con l’Iran che agisce contro gli Stati Uniti in Irak e contro Israele in Palestina.
«Non intendiamo invischiarci di nuovo nella palude di Gaza», ripetono i portavoce israeliani. Ma come gli americani in Irak, in questa palude ci sono ormai rientrati e il problema ora è a quali condizioni uscirne.
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