Il Papa sfida i rischi in Turchia per dialogare con gli ortodossi

Massimo Introvigne

Fa bene Benedetto XVI ad andare in Turchia? Il dibattito aperto sul Giornale da Ida Magli è troppo importante perché lo si lasci cadere. Certamente il Papa sa benissimo che andando in Turchia corre in effetti dei rischi, anche se la polizia turca è tra le più efficienti del mondo e i nostri servizi per fortuna non hanno dato retta a Prodi, che invitava a lasciar fare alle guardie svizzere, e stanno collaborando con i colleghi turchi per cogliere anche il minimo indizio di pericolo. Tuttavia, e purtroppo, specie se nel gioco entrasse Al Qaida l’esperienza insegna che neppure la più efficiente polizia del mondo può ridurre a zero il rischio del terrorismo. Dal punto di vista spirituale - come amava ricordare Giovanni Paolo II commentando l’attentato che aveva subito nel 1981 (dove l’attentatore era appunto turco, anche se i mandanti probabilmente sovietici) - l’orizzonte della vita cristiana non può non contemplare sempre la possibilità del martirio, per il Papa come per qualsiasi sacerdote o fedele rapito in Irak o scannato in Indonesia.
La questione posta laicamente da Ida Magli esige però anche una risposta laica, sul piano dell’opportunità politica. Mi sembra che le pur acute obiezioni proposte mettano troppo rapidamente da parte la ragione iniziale che ha spinto Benedetto XVI a volere fortemente questo viaggio: il dialogo con l’Ortodossia, il «secondo polmone» della cristianità senza il quale, diceva Giovanni Paolo II, l’Europa non può respirare. Di fronte alle sfide del laicismo e del fondamentalismo islamico Ratzinger ha chiarito fin dai primi giorni del suo pontificato di voler cercare con grande decisione una risposta in veri passi avanti lungo il cammino dell’unità dei cristiani, in concreto possibile solo con gli ortodossi. Bloccati da veti politici del Cremlino i russi, storicamente diffidenti i greci, è proprio il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli l’interlocutore ortodosso più promettente. Comunque sia, ricordare sia all’Europa sia all’Islam che prima di essere Istanbul quella città sul Bosforo si è chiamata Costantinopoli e Bisanzio è un gesto di immensa portata simbolica, forse meno compreso da noi ma che né gli ortodossi né i musulmani sottovaluteranno.
Certamente, andando in Turchia, il Papa non potrà fare a meno di tornare anche sul dialogo con l’Islam. C’è il rischio che si riduca a un generico buonismo? No, se si guarda bene sia a Benedetto XVI, sia alla Turchia. Il Papa non solo ha parlato chiaro su Islam, ragione e terrorismo ma ha anche smantellato la lobby filo-islamica in Vaticano, nella sostanza sciogliendo il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, dov’era annidata, e mandando il leader di questa lobby, il vescovo Michael Fitzgerald che presiedeva tale Consiglio, a fare il nunzio apostolico al Cairo.

Mentre la stessa lobby - per esempio attraverso gli interventi del gesuita Thomas Michel - attacca apertamente il Papa dopo Ratisbona (con testi che in modo irresponsabile sono fatti circolare anche in Turchia), il difficilissimo ma necessario dialogo con l’Islam - la cui sola alternativa è una guerra totale, un 11 settembre permanente fra l’Occidente e oltre un miliardo di musulmani - ha preso con Benedetto XVI uno stile che esclude i fondamentalisti, e seleziona gli interlocutori islamici privilegiando chi condanna la violenza e si apre al dialogo sui diritti umani. Questi interlocutori non sono facili da trovare, è vero: ma alcuni dei pochi che si manifestano stanno di casa precisamente in Turchia.

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