Il pericolo più grande è la paura della guerra

Lo sgomento che serpeggia tra i politici mette a rischio il ruolo e il prestigio internazionale del nostro Paese

«Non avere paura non sgomentarti» dice Dio a Gio­suè ( 8.1) e questa esortazio­ne si trova 40 volte solo nel Vecchio Testamento: è un imperativo fondamentale e indispensabile della cultu­ra del nostro mondo. Lo è nella cultura ebraica, lo è nella cultura cristiana, ha ispirato tutti i loro sviluppi laici sia conservatori che progressisti, è un leitmotiv della letteratura di ogni tempo, e la moderna bandiera del risorgimento e delle rivoluzioni. Senza questa esortazione non siamo niente. Perché la paura è un sentimento naturale, tutti la proviamo specialmente davanti a una situazione di conflitto. Oggi, bisogna cercare di non avere paura della guerra, proprio perché guardandosi intorno si vede, si legge, si respira nella politica troppo sgomento. Lo sgomento che si percepisce è pericoloso per la nostra riuscita e per il nostro prestigio internazionale. A volte è travestito da ragionevolezza, a volte da cinismo, a volte da prudenza, a volte da ignavia. E invece, quando volano i Tornado lo spirito pubblico deve nutrirsi solo di coraggio. La paura è un sentimento sensato ma guai, oggi, a farne una bandiera, una politica, renderebbe il gioco facile per i prepotenti e i malvagi se le lasciassimo compiere il suo corso.

Quando si va in guerra il dovere della politica è creare lo spirito pubblico che porta alla vittoria. Proprio la paura, condivisa da tutto il resto del mondo e soprattutto dalla tentennante politica di Obama, ci ha fatto compiere il primo errore, quello del ritardo che ora dobbiamo recuperare. L’Italia è il Paese che per posizione geografica ed economia ha più interessi in giuoco, più stake come si dice e quindi, anzi, questa guerra ci deve trovare appassionati e decisi. Ci sono molti buoni motivi per non avere paura. Andiamo dal minore al maggiore: la Francia, grande giocatore in competizione, non è certo un gran giocatore di politica mediorientale, questa sua escalation non la porterà da nessuna parte.

Non mi angoscerei neppure per l’Eni, le sue radici in Libia sono solide. Preoccupiamoci piuttosto del ruolo prossimo venturo dell’Europa in un Mediterraneo irriconoscibile. Noi non potevamo, sarebbe bello che lo capisse la Lega se non vuole pensare al pericolo islamico in maniera provinciale, non partecipare al grande giuoco del mondo che volta pagina e parteciparvi nella funzione a noi più propria: quella della difesa della libertà. Un ciclo storico si chiude, l’Italia,l’Europa non possono portare la giustificazione dei genitori, il papà americano è malato anche lui. Se un dittatore decima la sua popolazione, tanto deve bastare all’Occidente democratico per intervenire in nome dei suoi principi, pena la sua rispettabilità. Tutti si chiedono, e non solo per la Libia, chi verrà dopo i dittatori al tramonto e in particolare dopo Gheddafi. La verità è che può andare davvero molto male: può darsi che il desiderio di libertà non coincida affatto con quello di democrazia, e che i Fratelli musulmani e gli amici dell’Iran dovranno diventare la nostra interfaccia islamica nei prossimi anni. Sarà durissima.

E allora? Sarebbe capitato in ogni caso, sia col nostro intervento e la nostra approvazione, per esempio in Egitto, che senza. Per ora, devono cadere i dittatori, questo è il nostro credo, la nostra guerra. E quelli che verranno domani e che sono in ogni caso la nuova classe dirigente del mondo arabo, islamisti o meno che siano, sapranno che noi abbiamo una nostra guerra, un nostro credo. Un nostro coraggio.

I nostri Tornado. Quando il dubbio ci attanaglia e la paura ci aggredisce, pensiamo che solo un cambiamento in senso democratico è quello che ci interessa, e il futuro indica la strada della volontà e del coraggio.

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