Più che una festa una liturgia: divide il Paese, falsifica la storia

A liberarci sono state le truppe Anglo-Americane, ma si finge ancora siano stati i partigiani rossi. Il Risorgimento degli anti Cav. L'INEDITO Pio XII a Roosvelt: "Accetta la resa di Badoglio"

Più che una festa una liturgia:  
divide il Paese, falsifica la storia

Il presidente Napolitano celebrerà oggi, con un discorso alla Scala, la ricorrenza del 25 aprile. Posso immaginare quale tono e quali contenuti avranno le parole del Capo dello Stato. Ricalcheranno - è un rilievo, non un rimprovero - tante altre parole di tanti altri discorsi. Napolitano rievocherà il 25 aprile come un momento di unità nazionale, di affermazione popolare dei valori di libertà e di democrazia. Immagino che non mancheranno elogi alla Costituzione. Tutto come da copione, tutto molto nobile e alto. L’annunciata presenza di Berlusconi accanto a Napolitano sottolineerà il carattere super partes che il Palazzo vuol dare all’anniversario .

Lo sforzo è lodevole. Ma devo dire, ripetendomi, che a mio avviso è anche votato all’insuccesso. Quella del 25 aprile è una festa di parte. Se dall’ovattato ambiente scaligero si passa alle piazze, ai comizi, agli ordini del giorno, il 25 aprile appare ciò che veramente è. L’occasione per una ritualità partigiana che è in effetti una ritualità rossa, e che distingue gli italiani d’allora, e anche quelli d’oggi, in buoni e cattivi secondo l’ideologia di appartenenza (non è un discorso che opponga anacronisticamente fascismo e antifascismo, è un discorso che oppone la sinistra, monopolizzatrice mediatica e piazzaiola del 25 aprile, ai cosiddetti moderati).

La liturgia del 25 aprile dà per scontate alcune pseudo-verità. Che l’Italia sia stata liberata dalla Resistenza piuttosto che dai carri armati angloamericani; che il popolo italiano abbia sempre anelato a scrollarsi di dosso il giogo mussoliniano e a recuperare la democrazia; che l’Italia possa e debba festeggiare la fine della guerra a fianco dei vincitori. Siamo seri. La guerra l’Italia l’ha malamente perduta. Il fascismo la stragrande maggioranza degli italiani l’ha tranquillamente vissuto. Ci si è accorti delle efferatezze naziste quando la tigre tedesca era ferita, e accerchiata dai cacciatori. Non è avvenuto solo in Italia.

I francesi compattamente petainisti del 1940 furono compattamente gollisti nel 1944. La Francia ha avuto in De Gaulle l’uomo che ha saputo porre un suggello nazionale sulla lotta all’occupante, all’Italia quell’uomo è mancato, era impensabile trovarlo dopo il ventennio in camicia nera. Festeggiare le disfatte può aiutare a rimuoverle, ma non giova alla verità e alla dignità. Dopo la rotta di Sèdan - dove nel 1870 i prussiani umiliarono l’esercito di Napoleone III - in Francia si disse che bisogna ricordarla sempre, non parlarne mai. Noi non facciamo altro che crogiolarci nel chiacchiericcio su un immaginario 25 aprile virtuoso e vittorioso.

Il 25 aprile ebbe un prima e un dopo. Un prima tragico ed eroico. Ai caduti della Resistenza deve andare la gratitudine di tutti gli italiani. Dimostrarono che c’erano ancora dei combattenti nel Paese del «tutti a casa». E il 25 aprile ebbe il dopo di una mattanza sanguinaria che mai ha meritato un cenno e una riflessione nelle alate effusioni di retorica ufficiale. È doveroso rendere onore a quanti vollero la libertà e per la libertà morirono, può essere fastidioso ma è altrettanto doveroso rammentare che molti comandanti e militanti delle formazioni partigiane non volevano la libertà, volevano una dittatura comunista, e avevano come loro riferimento ideale e ideologico Stalin.

L’irrealtà d’un 25 aprile di conciliazione trova dimostrazione in piccoli e anche meschini episodi. Vietare «bella ciao» è sciocco. Impedire a esponenti del centrodestra di partecipare alle manifestazioni per la liberazione - è avvenuto e continua ad avvenire - è settario. Dopo l’entrata in politica di Berlusconi la strumentalizzazione ideologica del 25 aprile ha assunto connotazioni parossistiche. Si inneggia alla Resistenza includendovi anche la resistenza al Cavaliere, si festeggia la Liberazione ammiccando ai nefasti di Arcore, si esalta la Costituzione voluta da uomini che avevano fatto la Resistenza per scagliarsi contro il lodo Alfano o il legittimo impedimento. Tutto si traduce in bassa bottega della politica politicante.

Conciliazione? L’Anpi, l’associazione dei partigiani, adesso raduna - a causa d’anagrafe - solo una piccola minoranza di veterani della guerra di liberazione, e una schiacciante maggioranza d’iscritti che partigiani non furono mai, e che sono magari giovanissimi. Informati sui fatti della Resistenza, suppongo, come la media dei loro coetanei (ossia zero). Non sanno nulla di Ferruccio Parri, ma di villa Certosa sanno tutto. Si sono arruolati - spiegano i dirigenti dell’Anpi - perché «amano semplicemente la Costituzione». Vogliamo scommettere che tutti i baby partigiani identificano nei berlusconiani i nemici della Costituzione? È così che il 25 aprile è stato sempre piegato, e ora lo è più che mai, a esigenze e finalità di parte. Non si tratta d’impedire, a chi la pensa in un certo modo, di esaltare e propagandare il suo credo.

Si tratta soltanto di ricondurre un momento di divisione e non d’unità alla sua autentica essenza. Di una cosa abbiamo gran bisogno, tutti: di non raccontarci reciprocamente delle favolette, di dirci la verità anche quando è amara.

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