Più Stato sociale per tutti? Toglie la voglia di lavorare

Ma c’è, in Italia, la «macelleria sociale»? Stefano Lorenzetto ha osservato sul Giornale di mercoledì scorso che, mentre ci sono due milioni di disoccupati ufficiali, un terzo degli infermieri è straniero, che le badanti sono straniere, che senza gli immigrati nelle campagne mancherebbe la manodopera, che i ristoranti funzionano con molti immigrati e così via. Nella manovra dal governo, di «macelleria sociale» non se ne vede, salvo considerare tale il taglio, un po’ a casaccio, degli alti stipendi dei vertici burocratici e di chi riveste cariche pubbliche in Parlamento o nella miriade di pubblici enti di cui pullula l’Italia.
Loro se la sono cercata, c’è un chiaro squilibrio fra certi loro stipendi e buonuscite e fringe benefit e lavoro svolto effettivamente. Ma dal 2006 al 2012 se non si facesse nulla la spesa per le pensioni aumenterebbe dell’1,6 per cento sul Pil, cioè di 24 miliardi, e quella sanitaria dello 0,6, cioè di 9 miliardi. La manovra riduce ciascuna di esse di meno dello 0,1 per cento del Pil e non tocca la spesa sociale per le altre prestazioni, aumentata dello 0,5 per cento del Pil. Dal Rapporto annuale dell’Istat emerge che la crisi per i cittadini italiani non ha generato una sensibile crescita di disoccupazione, in quanto essa risulta del 7,3 per cento. La disoccupazione complessiva è allo 8,7 perché ha colpito soprattutto gli stranieri. Nel 2006 la disoccupazione era al 7,7. E le previsioni del Fondo monetario internazionale dell’inizio del 2009 davano per l’Italia, nel 2010, una disoccupazione del 10,5 per cento. Dunque la crisi è stata gestita bene, dal punto di vista sociale.
Ma l’articolo di Stefano Lorenzetto, che si chiudeva con la frase «molti la macelleria sociale sono riusciti a farsela da soli», ha dato luogo a molte lettere che mostrano una situazione variegata. Intanto emerge che il problema dei «bamboccioni» su cui si è soffermato il Rapporto annuale dell’Istat, considerando i giovani fra i 15 e i 30 anni, è diverso da quello da essa segnalato. Così un lettore (in questa pagina presentiamo alcuni dei pareri inviati al Giornale) scrive da una regione del meridione che ha 53 anni, è giornalista laureato in giurisprudenza, ha una moglie laureata in economia, è rimasto senza lavoro e si è «aggrappato» alla pensione del padre, che però è morto ai primi di maggio. Immagino che la moglie lavori, ma con un reddito modesto che non consente alla famiglia di tirare avanti decentemente. E con quella laurea e quel curricolo professionale nel Sud non è facile trovare un’occupazione, salvo adattarsi a un lavoro per il quale però occorrerebbe, oltre che capacità di adattamento, anche una riconversione professionale.
Il nostro mercato del lavoro è molto opaco. Non esistono istituzioni che gestiscano questo tipo di problemi individuali. Ma un lettore di 52 anni che lavora in albergo da quando ha 15 anni spiega che nei piccoli alberghi non si possono rispettare i contratti nazionali, quanto al numero di ore di lavoro, quindi a fine mese dovrebbero essere riconosciuti gli straordinari. Ma il piccolo albergo non vuole o non può sopportare questo onere e perciò ricorre a due espedienti. Il primo è il fuoribusta in contanti a forfait, il secondo è il ricorso a personale extracomunitario che accetta 800 euro al mese, senza una vera busta paga e lavora per tutte le ore che gli sono richieste. Dunque i contratti nazionali rigidi, uguali per tutti, che tanto piacciono alla sinistra, sono causa sia della disoccupazione degli italiani, sia della loro discriminazione a favore degli stranieri. Aggiungo che sugli orari straordinari gravano gli oneri contributivi e l’Irap oltre che l’imposta sul reddito ora con aliquota ridotta.
Molti bamboccioni disoccupati denunciati dall’Istat lavorano in nero nei settori dove il contratto nazionale e gli oneri fiscali e contribuitivi generano la spinta a evadere. Alla pensione penseranno quando saranno più avanti negli anni. Attualmente, poi, il lavoro autonomo non strutturato è esente da Irap, ma quando l’azienda assume un dipendente, questi diventa «strutturato» e l’azienda stessa deve pagare l’Irap per sé e per il dipendente. E il lavoro nero pullula anche perché sono carenti i controlli Iva e con il redditometro. Così un lettore di Napoli dice che vede molte persone ben vestite, curate e ingioiellate che sono esenti per il fisco, in quanto ufficialmente disoccupati. E un signore di 37 anni scrive dei coetanei che rifiutano gli impieghi loro offerti perché vivono dalla mamma e si sono comprati anche l’appartamento col mutuo indebitandosi. Un altro scrive che nella ditta in cui lavora, nel 2009 sono transitati 6 lavoratori interinali e qualcuno ha rifiutato il lavoro perché non gli piaceva.

Il lettore che opera da anni nel mercato del lavoro e approva Lorenzetto aggiunge alla fine una frase su cui non sono d’accordo. La realtà è che lo stato sociale in cui viviamo, con tutte le sue protezioni e con una classe politica di sinistra mai contenta, ha generato una mentalità proclive a protestare e non a rimboccarsi le maniche.

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