Nel 2003 di questi giorni ero nel Nord Irak, nei territori di quel Kurdistan dove i peshmerga attendevano l’arrivo delle truppe statunitensi pronte a guidare l’avanzata verso i territori controllati da Saddam Hussein. Ma gli americani non arrivarono mai bloccati dal no di una Turchia appena finita nelle mani di Erdogan. E al loro posto fece capolino la Brigata Sadr, formata dalle milizie sciite addestrate e armate da Teheran. A distanza di vent’anni, segnati dalle guerre civili alimentate prima agli insorti filo-Saddam e poi dai militanti jihadisti di Al Qaida e Isis, il prologo di quella guerra risulta quanto mai significativo. La democrazia, promessa dagli Usa, non è mai arrivata. Per contro gli errori inanellati dagli americani sin da quel marzo 2003 hanno trasformato il Paese in uno stato vassallo dell’Iran e delle sue milizie. Errori a cui si sono aggiunti quelli commessi in Libia e Afghanistan favorendo il progressivo allargamento dell’influenza cinese dall’Africa al Medioriente.
Anche per questo preoccupa assistere, vent’anni dopo, all’arrivo a Mosca di Xi Jinping. L’allungarsi sulla Russia dell’ombra del Dragone suscita il timore che il proposito di salvare l’Ucraina finisca nel lungo periodo con l’ammazzare la Russia regalando Pechino buona parte delle sue ricchezze. Ad alimentare questi timori contribuisce la sensazione che dietro l’obiettivo principale del conflitto, ovvero la difesa di Kiev, si nasconda quello, meno esplicito, di fiaccare la Russia e innescare una disgregazione della Federazione accompagnata un cambio di regime. Un obbiettivo già teorizzato apertamente da alcuni consulenti del Pentagono, come Janusz Bugajski, un ricercatore della Jamestown Foundation autore del saggio Failed State, A Guide to Russia Rupture in cui si teorizza la decomposizione della federazione russa e la sua divisione in un miriade di repubbliche. Certo l’amministrazione Biden si guarda bene, fin qui, dal condividere simili propositi. Preoccupano però due elementi. Il primo è la decisione con cui il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby, liquida come inaccettabile, un cessate il fuoco russo. Il secondo è la determinazione con cui la Casa Bianca guarda non al negoziato, ma a un’imminente controffensiva ucraina garantita dagli armamenti occidentali.
E preoccupa ancor di più che l’irrigidimento di Washington e della Nato sia stato accompagnato dalla formale incriminazione di Putin da parte della Cpi.
Un atto che, aldilà della sua legittimità giuridica, trasforma Putin in un paria della diplomazia internazionale estromesso da qualsiasi possibile trattativa. In questo scenario gli unici possibili epiloghi del conflitto sono affidati a un’offensiva ucraina capace di restituire a Kiev il controllo del Donbass e della Crimea o una guerra di logoramento in cui Mosca sarà costretta a fare i conti con sempre crescenti forniture di armi occidentali. Ma entrambi questi epiloghi implicano una possibile implosione del sistema di potere legato a Vladimir Putin. La storia insegna, però, che la sconfitta o la caduta di un leader russo - da Nicola II a Gorbaciov- è quasi sempre accompagnata da un inevitabile caos interno.
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