La politica industriale? E' questa

Napolitano suggerisce ancora al governo di concentrare la sua azione per rilanciare l’economia. Ma molto è già stato fatto e la linea è chiara: nessuna interferenza sui contratti lavoro, riduzione delle imposte e ricorso ai privati per le infrastrutture

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha di­chiarato che in Italia serve una politica industriale per far crescere il prodotto nazionale e aumentare l’occupazione, particolarmente dei giovani. Ciò è vero. Ma ci sono due tipi di politica industriale. Innanzitutto c’èla vetero dirigista,attuata in Italia con sov­venzioni alla Fiat e alla Olivetti, alle imprese pubbliche (vedi Alitalia in particolare) e colla concertazione sindacale - con Cgil al ponte di comando - . Essa ha fatto regredire la produttività delle aziende, ha oberato di costi impropri il contribuente, ha ridotto gli utili delle imprese, ha danneggiato gli azionisti e ha ridotto i salari dei lavorato­ri italiani, rispetto ai lavorato­ri degli altri Paesi europei. Far rivivere questa politica in­dustriale frutto di una intesa fra grandi imprese, grandi banche e partiti di sinistra coi relativi sindacati, a danno di tutti gli altri, sarebbe un gra­ve errore. Non la vuole più, per fortuna, la Confindustria di Emma Marcegaglia. Non lo vuole soprattutto la nuova Fiat di Sergio Marchionne, il «discolo» che rifiuta (final­mente) gli incentivi statali e non chiede prestiti agevolati. Ma vuole, in cambio, la liber­tà di contratto di lavoro, con un discorso con i sindacati che ci stanno, basato sul reci­proco vantaggio per una cre­scita della produttività. In questa altra politica indu­striale c’è la linea del governo di Silvio Berlusconi, che con­siste nel non interferire con le parti nei contratti di lavo­ro, nella riduzione delle im­poste sulle imprese, nella di­minuzione delle spese pub­bliche correnti e nell’aumen­to di quelle per le infrastruttu­re. Niente sovvenzioni alle imprese. Politica tributaria favorevole ai contratti di lavo­ro basati sulla produttività. Questa seconda politica in­dustriale è quella che serve a far crescere il prodotto nazio­nale, a far rifiorire i profitti delle imprese e gli utili degli azionisti, a ridurre gli oneri per i contribuenti, a dare più redditi ai lavoratori in cam­bio di una maggiore collabo­razione per la produzione. Es­sendo fondato sulle regole del mercato, questo indiriz­zo di politica economica, pro­priamente non comporta nessuna vera politica indu­striale, perché consiste nel la­sciar fuori lo Stato dal merca­t­o e dall’avere un sistema sin­dacale che lasci funzionare il mercato. Dunque, questa po­litica industriale che consiste nel mandare in soffitta la tra­dizionale politica industria­le, e nel far fiorire il mercato, può anche definirsi come «niente politica industriale». In cosa consista questo mutamento di linea risulta in modo chiaro e dettagliato nel programma del governo (in cinque punti) di Berlu­sconi. In esso c’è la riduzio­ne dell’Irap, sino alla sua eli­minazione, la spesa per in­frastrutture anche con ricor­so al capitale privato, le ridu­zioni fiscali per le nuove im­prese nel Sud e la detassazio­ne dei redditi di lavoro legati alla produttività. E ciò si col­lega al patto sociale di Mar­chionne, che comporta, per il pieno utilizzo degli impian­ti, lavoro notturno, aumento delle ore di straordinario, controllo delle assenze e de­gli scioperi ingiustificati e premi di produzione, in cam­bio di un grosso investimen­to in nuovi impianti che ga­rantisce l’occupazione. In questo patto non c’è posto per la pretesa dei sindacali­sti di controllare le linee di produzione. Nell’azienda, sul lavoro, comandano il ca­po fabbrica e il capo reparto. Il sindacalista vigila perché gli accordi che ha concluso con la controparte siano ri­spettati. E lo fa senza interfe­rire nel lavoro. Per definire questa politica industriale che occorre all’Italia, penso sia utile richiamare un bra­no di Luigi Einaudi, in un ar­ticolo su Il Mondo , di Sergio Pannunzio, negli anni Cin­quanta. Riguarda un episo­dio accaduto a Dogliani, in provincia di Cuneo, ai primi nel Novecento, in occasione di una inchiesta del ministe­ro dell’Agricoltura sulla si­tuazione agricola delle pro­vince italiane. Al termine dell’intervista ai coltivatori diretti del luogo, rappresen­tati da tre di loro, l’intervista­tore fece la domanda finale «che cosa chiedete al gover­no? ».

I tre, scrive Einaudi, stettero un po’ in silenzio, poi fecero parlare il più an­ziano che disse: «Fateci pa­gare poche imposte, rifateci la strada, al resto pensiamo noi». Non c’era la Cgil di Epi­fani colla Fiom di Landini. A parte ciò, la risposta è valida per la politica industriale at­tuale.

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