Addio ad Alesina, l'economista amato dagli Usa

Era nato nel 1957, sua la proposta di un'"austerity" basata sul taglio della spesa pubblica

Addio ad Alesina, l'economista amato dagli Usa

Con la morte prematura di Alberto Alesina se ne è andato l'economista italiano oggi più conosciuto a livello internazionale. Nato nel 1957 in provincia di Pavia e formatosi alla Bocconi di Milano, Alesina è stato per anni una delle colonne dell'università di Harvard, dove lui stesso aveva conseguito il dottorato e dove ha svolto per intero la sua vita accademica di docente e ricercatore. All'attivo di Alesina vi sono numerosi importanti studi, in direzioni anche differenti. Tra i vari ambiti di cui si è occupato vi sono la politica economica, le unioni monetarie, i sistemi di welfare e l'integrazione europea. Il suo volume di maggior successo, con ogni probabilità, resta però quello del 2003. Scritto con Enrico Spolaore, «The Size of Nations» («La taglia delle nazioni») indaga il rapporto tra sviluppo economico e dimensioni degli Stati. In definitiva, l'analisi punta a evidenziare i benefici e i costi che sono connessi all'estensione di un paese: perché se da un lato è vero che uno Stato più vasto permette un ampio mercato interno, è anche vero che le grandi strutture istituzionali producono parassitismo e inefficienze, insieme a oneri crescenti di varia natura. L'ideale che veniva suggerito era allora quello di un sistema flessibile di relazioni politiche capace di cogliere, quanto più fosse possibile, i vantaggi delle ampie dimensioni e di quelle più modeste.

Fu anche assai vivo nel dibattito italiano, perché non aveva certo smesso di seguire i travagli del suo paese d'origine. Assieme a Francesco Giavazzi, in particolare, scrisse alcuni testi indirizzati soprattutto al grande pubblico: sull'austerity, sull'Europa, sul declino economico. Quello che ebbe più successo, anche in ragione del titolo, fu il volume che nel 2007 i due economisti intitolarono «Il liberismo è di sinistra».

La tesi di fondo che associava progressismo e mercato non piacque né a destra, né a sinistra, ma in fondo quel libro rappresentava soprattutto il generoso tentativo di far comprendere a quanti dicono di avere più a cuore il destino degli ultimi che soltanto grazie alla libertà del mercato è possibile avere meno miseria, meno disoccupazione, meno sfruttamento. In questi anni di demagogia imperante, dove ogni sforzo di mettere in ordine i conti della finanza pubblica era bollato come antisociale, Alesina ha anche preso di petto una questione spesso sfruttata dalla demagogia prevalente: l'austerità. La sua idea era che i bilanci pubblici non dovessero essere sfasciati, ma che al tempo si dovesse guardare al futuro. Non gli importava quindi un'austerità qualsiasi, perché a un pareggio ottenuto con grandi prelievi confiscatori preferiva uno ottenuto con riduzioni della spesa pubblica e con la rinuncia a «grandi opere» di discussa utilità. Egli rimase sempre fedele, insomma, all'idea che una buona economia è quella che libera le forze imprenditoriali e sociali, così da favorire il benessere della società nel suo insieme.

Queste tesi si ritrovano nella conclusione a un testo del 2008 intitolato «La crisi: questo non è il momento di slogan contro il capitalismo, la finanza e il mercato», perché «il capitalismo può produrre crisi

gravi, ma rimane il sistema economico migliore che il genere umano sia stato in grado di creare». È un peccato che tale lezione dell'economista di Harvard nato a Broni non sia mai stata davvero accolta nel suo paese d'origine.

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