Andrea Carandini: "Mio nonno Luigi Albertini direttore del Corriere, mio padre ambasciatore a Londra e il tramonto della grande borghesia"

Roma. Il tramonto della borghesia liberale, i ricordi del nonno Luigi Albertini, il salotto di Roma gestito con grande eleganza dalla madre Elena e la passione del padre per la politica estera.

Andrea Carandini: "Mio nonno Luigi Albertini direttore del Corriere, mio padre ambasciatore a Londra e il tramonto della grande borghesia"

Prima di entrare nel cortile del palazzo dove vive il conte Andrea Carandini, si può leggere una targa in cui vi è scritto: “Qui visse il Senatore Luigi Albertini (1871-1941). Creò Il Corriere della Sera da cui venne estromesso dal fascismo nel 1925. Scrisse sulla vita politica italiana. Fondò la bonifica di Torre in Pietra”. Andrea Carandini è uno degli ultimi rappresentanti della grande borghesia italiana. Figlio di Elena Albertini, figlia di Luigi, storico direttore del Corriere della Sera - prima di essere cacciato dal fascismo - e del conte Nicolò, ambasciatore a Londra dal ’44 al ’47 e fondatore del Pli e Pr. Quella di Carandini è una vita ricca di incontri con i protagonisti del secolo precedente, a cui oggi guarda con emozione e rammarico per una società che volge al tramonto, trascurandone i valori e le tradizioni. E per mantenere questo sottile rapporto con il passato (anche della sua famiglia) conserva il legame con la cugina Marta Albertini, pronipote di Tolstoj, anche lei testimone di un’epoca che non c’è più.

Professor Carandini, già arrivando in prossimità del suo palazzo e osservando cosa vi è intorno, dalla targa in ricordo di suo nonno, al Palazzo del Quirinale e della Corte costituzionale, si ha l’idea di cosa ha rappresentato la sua famiglia per questo paese.

“Come ho avuto modo di scrivere nel mio libro L’ultimo della classe. Archeologia di un borghese critico (Rizzoli), provengo da una varietà rara della borghesia italiana, quella “critica” che ha resistito al fascismo, a differenza dell’altra parte che vi ha ceduto al regime. Questa borghesia “diversa”, di cui il ricordo è svanito, ha rappresentato il modello di una élite dedita all’interesse generale, che ha finito però per perdere potere e influenza a causa della propria laicità e causticità di pensiero. Le famiglie della grande borghesia non erano molte, però erano molto forti, solide e severe. Erano famiglie anche imprenditrici, mio nonno infatti è stato un grande gestore del Corriere, sempre fedele valori originali del liberalismo a cui lui si ispirava”.

Riguardo alla borghesia di cui Lei parla, Il Corriere della Sera di cui suo nonno fu lo storico direttore (1900-1921), rappresentava proprio quell’anima borghese e liberale…

“Spenta nel ’25 e riaccesa nel ’45. Vent’anni di vuoto perché i fratelli Crespi cedettero a Mussolini”.

Questo giornale a cavallo tra gli anni ’60/’70 passa a sinistra tradendo la sua vocazione originaria.

“La signora Crespi, a cui io sono succeduto come presidente del FAI, si sentiva forse in colpa per quello che era successo alle sue spalle durante il ventennio fascista. È qualcosa accaduto di frequente nell’alta borghesia milanese, basti pensare a Feltrinelli, Pirelli, Panza di Biumo: tutta una serie di grosse famiglie in cui i figli si sono sentiti colpevoli e sono diventati ultra-progressisti, anche massimalisti. Io posso capirli: avevano fatto il grosso dei soldi con il fascismo. Io questo complesso non l’ho avuto, però ho avuto anche io una reazione antiborghese da giovane, tant’è vero che mi sono iscritto per qualche anno al Pci, poi me ne sono presto allontanato. Sono stato anche responsabile del settore cultura chiamato da Napolitano, molto amico del mio maestro Ranuccio Bianchi Bandinelli”.

Oggi che la grande borghesia italiana non c’è più, sente il peso di questa eredità morale, storica e culturale della sua famiglia?

“Certamente. E l’idea del mio libro nasce proprio dall’esigenza di dare una testimonianza diretta di un mondo, di un gruppo sociale tramontato, di cui soprattutto da vecchio valuto la qualità dopo essermi fieramente opposto a esso da giovane. La borghesia “illuminata” è stata capace di formare e sviluppare la liberaldemocrazia e la civiltà industriale, di pensare liberamente e in grande e di preoccuparsi con discernimento degli interessi collettivi, unendo professionalità, etica civile, consapevolezza storica e lungimiranza politica”.

Ha ancora dei ricordi legati a suo nonno Luigi Albertini?

“Ce l’ho eccome! Lui viveva al terzo piano, - erano arrivati a Roma nel ‘26 – mentre al secondo i miei genitori, giovani sposi. Io andavo spesso da lui, anche perché c’era Arturo Capocci, - l’autista di mio nonno, prima di servizio alla Real Casa - che mi proiettava Topolino in bianco e nero. Poi si aprivano le porte del salone e usciva lui, che mi metteva sulle spalle e cantava magari il Mefistofele di Boito… Sento ancora quella bella voce tenorile, quella vinta energia”.

È vero che questa casa di Roma fu frequentata da figure come Croce, Pannunzio, Tarchiani, Sforza ecc…

“Sì, venivano ricevuti nella grande sala. Era una élite meravigliosa, cosmopolita, scelta, e io da bambino ascoltavo…, ammesso soprattutto ai tè, perché alle cene era più difficile, ma si rubavano ugualmente i discorsi… Vi erano poi le colazioni, anch’esse tra pochi e sempre educative; rivedo le ciglia spropositate e all’insù di Palma Bucarelli e ricordo Ruggero Schiff Giorgini, pronipote di Manzoni”.

Qual era la figura più vicina a suo nonno?

“Un amico carissimo si chiamava Vincenzo Torraca, a cui mio nonno dette la direzione del Teatro Eliseo e lui ne è stato direttore per almeno quarant’anni. Poi c’erano i Casati, non erano tantissimi gli amici ma molto veri”.

Come fu la vita sotto il fascismo di suo nonno e suo padre?

“Sotto casa c’era un poliziotto che Mussolini aveva messo per controllare il nonno. Lui era un uomo troppo conosciuto all’estero per poter essere ammazzato. Quindi lo lasciavano campare ma sotto controllo. Mio padre invece non dormiva quasi mai a casa, all’Aventino, nei sottotetti di Palazzo Borghese, perché anche lui era un antifascista attivo. Mio nonno era un po' il maestro di mio padre… Invece l’altro lato della famiglia Albertini - in cui era entrata una nipote di Tolstoj - quella di zio Leonardo (fratello di mia madre) era più conservatrice, più legata al liberalismo di Malagodi e della Confindustria piuttosto che al gruppo del Mondo, che era un miscuglio tra il liberalismo di sinistra e azionismo”.

Come votò la sua famiglia nel ’46?

“La famiglia votò Monarchia, i miei genitori votarono Repubblica”.

Suo padre fu ambasciatore a Londra dal ’44 al ’47 ed anche ministro. Con Sforza, Tarchiani e Saragat, sotto la regia di De Gasperi, dettero vita ad una nuova politica estera italiana, furono i protagonisti della ricostruzione diplomatica italiana.

“Papà era un vero talento e aveva una grande passione per la politica estera, e ciò lo si può facilmente rintracciare nei suoi articoli sul Mondo… Un giorno venne De Gasperi a casa per chiedere a mio padre di fare il ministro degli Esteri e lui rifiutò perché il Partito Liberale era contrario a quel governo, ma poi tre liberali tra cui Einaudi c’entrarono… Mia madre non era d’accordo con questa scelta. Se dovessi dire qual era l’aspetto più affascinante di mio padre, oltre alla sua bellezza ed eleganza assoluta, non era affatto ambizioso. Mentre mia madre, di estrazione borghese, era ambiziosa. Il borghese ha l’ambizione del merito nel sangue”.

Insieme a Pannunzio, Cattani ed altri, suo padre partecipò alla rinascita del Partito liberale da cui poi uscì negli anni ’50 fondando il Partito radicale.

“Nel ’54 Giovanni Malagodi aveva spostato a destra il Partito liberale. Allora i seguaci di Bruno Villabruna e gli “Amici del Mondo” dettero vita al Partito radicale. I liberali di sinistra legati a Croce, come Pannunzio e mio padre, e i seguaci della tendenza liberalsocialista, già del Partito d’Azione, legati a Salvemini, come Ernesto Rossi, Leopoldo Piccardi ed Eugenio Scalfari, iniziarono a confrontarsi. Io però quella stagione non l’ho vissuta a causa dell’antagonismo con mio padre, mi dovevo opporre e quindi trovavo queste persone troppo ‘barbogie’…”.

Ha qualche aneddoto su Pannunzio?

“Lui viveva di notte, io ricordo che veniva a Ronchi nostro ospite al mare e di giorno dormiva; poi di sera ricompariva”.

Suo padre insieme ad Arrigo Olivetti fu proprietario del Mondo, diretto da Pannunzio. Che influenza ha avuto dal punto di vista politico-culturale?

“Moltissima. Vendevano trentamila copie però era un fermento continuo, detestato ma anche molto osservato e stimato. Quindi era una minoranza molto attiva. I convegni del Mondo all’Eliseo sono stati degli eventi grandiosi, per i partecipanti, la verve, i temi affrontati”.

Tra i giovani più promettenti del mondo radicale c’era Eugenio Scalfari.

“Scalfari era molto gradevole e simpatico. Io andavo a cena da lui fino a quando era in vita la prima moglie, Simonetta, figlia di Giulio De Benedetti, storico direttore de La Stampa. Nella sua casa di Roma aveva un bel terrazzo dove sono avvenute grandi cose, fondazioni, incontri, ecc… Un giorno decisi di regalargli il telefono di mio nonno, perché mi ero convinto che lui fosse il Luigi Albertini di questo secolo. Poi mi sono accorto che mancava completamente quella fermezza, quella consistenza, quella coerenza che invece contraddistingueva mio nonno. Direi la gravitas ormai molto rara”.

Laura Laurenzi su La Repubblica, in occasione della morte di sua madre, Elena Albertini, scrisse: “Colta, raffinata, donna di gusto, sicura… riuniva attorno a sé gli ultimi amici del Mondo”.

“L’ha definita bene. Mia madre aveva molto sofferto del fatto che suo padre - e lì c’era l’aspetto più conservatore degli Albertini - non aveva mandato i figli a scuola. Avevano i migliori maestri possibili a casa finché, quando si è trattato di passare alla prima liceo, mio zio l’ha mandato al Parini, mia madre no, allora lei si è ribellata mettendosi a coltivare gli studi in proprio. Così il fratello di Giuseppe Giacosa, gli ha dato il diario di una aristocratica russa che allora andava per la maggiore e che l’ha ispirata, in quanto il diario di mia madre è qualcosa di assolutamente straordinario per qualità e durata: testimonianza che un paese più civile avrebbe ben altrimenti valorizzato. Mio padre quando io ho scelto Lettere non era contento, mia madre sì; forse sono riuscito a fare quello che lei avrebbe desiderato fare e non ha potuto”.

Quando nasce la sua passione per l’archeologia?

“Nasce da un sogno che feci a circa nove anni. Mi trovavo nella sotterranea di Londra da solo e qualcuno aveva cambiato tutte le frecce dei ‘way out’ all’incontrario, per cui invece di salire scendevo sempre di più, finché come in fondo a quell’imbuto vedo una porticina, la apro e mi trovo in un cimitero vittoriano. E cosa sta avvenendo? C’è un gruppo di maggiordomi che sta aprendo tombe di dame a cui tolgono i gioielli, - le dame sono ben conservate, ancora belle -, e li mettono in una scatola di peltro. È lo scavo di una necropoli”.

Lei è stato allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli conosciuto anche per aver accompagnato Hitler in giro per Roma nel ’38.

“Quella fu una grande pecca secondo me di cui lui soffrì molto… Era un argomento che io con lui non toccavo, anche perché era l’unica cosa di lui che non mi piacesse. Era molto curioso, un uomo dal fascino speciale, ho preso moltissimo da lui, però il suo comunismo integrale non era la parte per cui era più interessante. Ma anche lì c’era il senso di colpa, non tanto del borghese, quanto dell’aristocratico”.

È vero che tra i tanti amici di famiglia c’era Guttuso?

“Sì, era un carissimo amico di famiglia. Nel Castello di Torre in Pietra, c’è una stanza che è stata lo studio di mio padre dove lui anche dipingeva, e su uno stipite della porta Guttuso ha scritto “Bravo Nicolò!”. Poi è stato ospite della casa dei miei genitori al Vesuvio dove ha dipinto il vulcano…”.

Le oggi si sente un comunista pentito?

“Si, perché mi sono lasciato trascinare dalla corrente di allora vivacissima nel mondo universitario e intellettuale; avevo anche un maestro che era comunista, tutto questo mi ha influenzato. In più c’era l’antagonismo con le mie origini. Ma gli studi di Marx sui modi di produrre pre-capitalistici sono tutt’ora validi”.

C’è una bella foto che ritrae Lei e Suo padre a piedi lungo la via Sacra ai piedi del Palatino, con una scritta che

racchiude, - forse - in breve, la sua lunga vita.

“Sì. Sono consapevole da dove vengo, ma l’esito della mia vita l’ho scoperto solo gradualmente, scavando dentro me stesso e raccontando agli altri quello che ho trovato”.

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