Anestesista schiavo della coca Ma l'ospedale non fece nulla

Saronno, dalle carte spunta per Cazzaniga un problema "grave" di dipendenza. E il silenzio dei vertici sanitari

Anestesista schiavo della coca Ma l'ospedale non fece nulla

nostro inviato a Saronno (Va)

Sfilano uno dopo l'altro, davanti ai magistrati, i medici che hanno taciuto, anche se sapevano, intuivano, sospettavano. Mentre Leonardo Cazzaniga dispensava il suo «protocollo» ai pazienti che non riteneva idonei a uscire vivi dal pronto soccorso, i suoi colleghi dell'ospedale di Saronno fingevano di non vedere. Ieri nella caserma dei carabinieri, davanti al pm Maria Cristina Ria e al procuratore Gianluigi Fontana, chi può cerca di discolparsi o almeno di spiegarsi. Qualcuno, come Fabrizio Frattini, direttore del servizio Emergenza e urgenza, sceglie il silenzio. Ma il quadro desolante di superficialità, connivenze, opportunismi che per anni ha lasciato agire Cazzaniga appare ormai sufficientemente chiaro.

A non essere chiaro è un pezzo chiave di qualunque delitto: il movente. Perché arrivato alla maturità un medico esperto come Leonardo Cazzaniga si trasforma in un dispensatore di morte? È questo il vero interrogativo che aleggia sulla vicenda. Perché di certo, dalla morte di quei quattro pazienti, o degli altri decessi ancora sotto inchiesta, a Cazzaniga non è venuto in tasca nulla.

Nascosto nelle pieghe della richiesta di arresto, c'è però un dettaglio che forse può aiutare a capire. Droga. Droga pesante. A un certo punto della sua carriera, Leonardo Cazzaniga aveva incrociato la cocaina. Ne era condizionato al punto di dubitare di poter continuare a lavorare. E, incredibilmente, anche di questa sua fragilità c'era in ospedale chi sapeva e non ha fatto niente.

Il 3 luglio 2015, nello studio di Paolo Valentini, direttore medico di presidio, i carabinieri intercettano una conversazione dello stesso Valentini con il direttore sanitario Roberto Cosentina: che, scrivono i pm, «ha dimostrato di sapere che Leonardo Cazzaniga si autodefiniva in reparto l'angelo della morte. Ha aggiunto inoltre di avere appreso dallo stesso Cazzaniga che lo stesso faceva uso di cocaina ed aveva per questo necessità di un periodo per disintossicarsi.

Cosentina dice al direttore di essersi già imbattuto in una vicenda analoga al Fatebenefratelli, accenna a un chirurgo e fa il rumore di una sniffata. Poi parla di Cazzaniga che aveva preso un periodo di malattia: «Devo dire che nella sua sbulloneria su quella roba fu corretto, perché disse io ho questo problema». «Te l'ha detto lui?», chiede Valentini. «Eh?». «Te l'ha segnalato lui, perché come hai fatto a scoprirlo?». «Sì,sì». «Ah... autodenuncia». «Sì, mi disse io ho questo problema, adesso mi prendo un periodo per vedere di disintossicarmi perché sto esagerando. (..) non dico che smetto ma almeno... perché sto esagerando».

Valentini appare impressionato, chiede se il medico curante di Cazzaniga è stato informato. «No, attenzione - risponde Cosentina - stiamo chiacchierando (...) lui cosa ha detto al medico competente non lo so, so che il medico competente non ha osteggiato il suo rientro in servizio. L'avrà messa sul periodo di stress, di fragilità, eccetera». Insomma, in ospedale si sapeva non solo del «protocollo Cazzaniga», ma anche che il suo inventore stava «esagerando» con la droga. Eppure venne lasciato in servizio.

Anche in quel caso, insomma, scattò la regola del silenzio. L'omertà a Saronno era tale che quando qualcuno sceglieva di denunciare, lo faceva nel modo meno coraggioso ed efficace: come nel caso di Elena Soldavini, la dottoressa interrogata ieri.

Si era accorta che Cazzaniga aveva truccato, usando il proprio sangue, le analisi di Massimo Guerra, marito della sua amante, in modo da poterlo poi uccidere a forza di farmaci inutili. E insieme a una infermiera decise di denunciarlo con una lettera anonima. La lettera fu inviata ai carabinieri di Cantù, finì in un fascicolo della Procura di Como che riguardava tutt'altro, e lì rimase.

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