I 27 nani hanno bisogno di una cura ricostituente per crescere, difendersi e sopravvivere in un mondo sempre più polarizzato e dove la rapidità dei cambiamenti richiede risposte altrettanto veloci. E soldi, tanti soldi: almeno 500 miliardi di euro, da trovare in fretta. Anche rompendo il tabù della mutualizzazione del debito. Più che un guanto di sfida a quell'Europa ombelicale, incapace di tagliare il cordone con i disastri combinati a Maastricht e di immaginarsi come un unico corpo, l'intervento di Mario Draghi alla riunione informale di ieri dell'Ecofin a Gand è stato un sasso lanciato e arrivato dritto in fronte a qualcuno. Pare infatti che Germania e Svezia abbiano mal digerito le parole dell'ex presidente della Bce, e segnatamente queste: «Negli ultimi anni si sono verificati molti cambiamenti profondi nell'ordine economico globale. Questi cambiamenti hanno avuto diverse conseguenze. Una di queste è chiara: in Europa dovremo investire una somma enorme in un tempo relativamente breve».
Frasi urticanti per chi ha appena rimesso in piedi un Patto di stabilità col solito pallottoliere ordoliberista, così gonfio di percentuali ragionieristiche di rientro da deficit e debito, poiché anticipano il modo in cui l'Unione europea dovrebbe muoversi per colmare il divario con chi corre di più grazie alle diverse scelte fatte. «Il divario dell'Ue rispetto agli Usa - cita non a caso l'ex presidente del Consiglio - si sta allargando soprattutto dopo il 2010. Agli Usa sono serviti due anni per tornare ai livelli precedenti, all'Ue 9 anni e da allora non siamo saliti. C'è un gap di investimenti dell'1,5% del Pil pari a 500 miliardi di euro». E per colmarlo serve ricompattare il Vecchio continente attorno a quello sforzo solidale e finanziario (ovvero il Next Generation Ue) che servì a rimuovere le macerie lasciate dal Covid e, ancor prima, recuperare quella capacità di reazione vista ai tempi della crisi del debito sovrano e di cui il whatever it takes draghiano rappresentò l'epitome. A chi è rimasto ancorato a un modello da inizio secolo, Draghi ricorda tre serie di fatti: «L'ordine economico globale in cui l'Europa ha prosperato è scosso; facendo affidamento sull'energia russa, sulle esportazioni cinesi e sulla difesa degli Stati Uniti, questi tre pilastri sono meno solidi di prima; la velocità nell'intraprendere la transizione verde sta imponendo un'esigenza di velocità nel cambiamento delle nostre catene di approvvigionamento così come la velocità di cambiamento imposta dall'intelligenza artificiale nel digitale».
Così, pur sapendo bene di andare incontro a un fuoco di sbarramento, l'ex premier propone questo schema: in Europa occorre mobilitare capitali privati (compreso il risparmio) per finanziare immensi investimenti produttivi. E il conto, secondo Draghi, è presto fatto: 500 miliardi all'anno sono necessari per la transizione green, a cui vanno aggiunti i fondi per il digitale, la difesa, l'autonomia strategica. Da qui bisogna partire, con un punto fermo: «Il denaro pubblico non sarà mai abbastanza» e, date le nuove regole del Patto, non si sa «quanto spazio fiscale a livello nazionale ci sarà per finanziare queste esigenze». Servono dunque nuovi modelli.
L'ex capo della Bce individua tre pilastri su cui costruire la nuova architettura, andando a ricalcare quando detto a metà febbraio a Washington sulla necessità di emettere debito comune per ampliare lo spazio fiscale a disposizione: un fondo dedicato espressamente a tale funzione, un prestito (evidentemente comune) o partenariati pubblico-privato centrati sulla Banca europea degli investimenti. Serve insomma coraggio nelle scelte per non diventare ancora più nani.
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