Bugie renziane su Bin Salman

Bugie renziane su  Bin Salman

Un bel tacer non fu mai scritto. Il primo a saperlo dovrebbe essere Matteo Renzi. Anche perché da un ex premier convinto di poter ancora aspirare alla poltrona di ministro degli Esteri o, peggio, di Segretario generale della Nato è doveroso aspettarsi affermazioni comprovate e verificate. Soprattutto se, per giustificare se stesso, tira in ballo il presidente degli Stati Uniti. Invece l'ex segretario del Pd - accusato di relazioni assai pericolose con il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman - non solo si definisce «amico» del temuto sovrano, ma cita a sproposito Joe Biden pur di scagionarlo dall'accusa di mandante dell'eliminazione di Jamal Kashoggi, il dissidente strangolato e fatto a pezzi nel consolato di Riad a Istanbul. All'origine di tutto c'è sempre la polemica montata a fine gennaio quando - nel bel mezzo di una crisi di governo da lui stesso innescata - il buon Matteo volò a Riad per intavolare una farsesca intervista al «grande» (parole sue) principe in cui sproloquiava di un improbabile rinascimento saudita. Lo sproloquio di allora è poca cosa rispetto a quello esibito ieri quando Renzi - bloccato all'uscita del Senato da alcuni giornalisti - ha dovuto fornire alcune precisazioni sull'argomento. Precisazioni nel corso delle quali - oltre a smentire di aver incassato un compenso da 80mila dollari - liquida come assolutamente infondate le accuse al principe. «È un mio amico - dice Renzi - lo conosco da anni. E non c'è nessuna certezza che sia il mandante dell'omicidio Kashoggi... Se voi - aggiunge - avete certezze sul mandante non è così per l'amministrazione Biden. E io mi fido più di quest'ultima». Ma qui casca l'asino. Il 28 febbraio scorso infatti la signora Avril Haines, coordinatrice e direttrice per conto della Casa Bianca delle 18 agenzie d'intelligence statunitensi, ha formalmente accusato il principe saudita presentando un documento di quattro pagine che conferma la posizione dell'amministrazione Usa. «Riteniamo - ha detto quel giorno la Haines - che il principe ereditario dell'Arabia Saudita Mohammed bin Salman abbia approvato un'operazione a Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi». Il rapporto, dopo aver ricordato il clima d'autentico terrore imposto ai propri subalterni da Bin Salman, cita i nomi delle 21 persone coinvolte nell'assassinio e spiega che nessuno di loro avrebbe potuto «decidere un'operazione così delicata senza il suo consenso». Dati di fatto e dichiarazioni su cui Renzi allegramente sorvola nella certezza di potersela cavare con una facile battuta. Una leggerezza non diversa da quella esibita quando, pur d'appagare l'«amico» principe, evocò il fantomatico «rinascimento» di un regno dove terrore e repressione sono di casa.

Un regno dove il 23 aprile 2019 il «grande» principe Bin Salman fece rotolare, in un solo giorno, le teste di 37 oppositori costretti a confessare, sotto tortura, la partecipazione ad atti di terrorismo. Un regno dove si contano una media di 150 decapitazioni all'anno e dove all'ascia del boia può venir preferita la lapidazione. O, persino, una crocifissione con taglio di testa finale.

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