Il Califfo in difficoltà? Un'illusione. Ora colpisce "asimmetricamente"

Isis arretra solo militarmente, ma avanza in altri modi

Il Califfo in difficoltà? Un'illusione. Ora colpisce "asimmetricamente"

Se credete che i morti italiani di Dacca siano il colpo di coda di uno stato Islamico ferito a morte disilludetevi. La tesi di un Califfato vicino alla sconfitta è più un auspicio che una realtà. E chi l'alimenta ricordando che ha perso il 45 per cento dei territori iracheni, il 20 per cento di quelli siriani e buona parte della ridotta libica di Sirte dimentica che l'aspetto «simmetrico» è solo una delle quattro dimensioni su cui si combatte la guerra all'Isis. Certo cancellarlo dal territorio eliminando la sua pretesa di rappresentare uno «stato» è sicuramente una tappa significativa. Ma per conseguirla bisognerà prima definire una strategia per la conquista di Mosul che non coinvolga solo le forze curde e sciite ed eviti l'ennesima marginalizzazione di quelle tribù sunnite diventate il terreno di reclutamento di Daesh. Ma quella strategia sembra per ora tanto lontana quanto quella di una Siria dove i curdi attivi al Nord e i governativi, avanzati da Sud, stentano a stringere in una tenaglia la roccaforte di Raqqa.

Vinta la battaglia «simmetrica» si dovranno comunque affrontare le altre tre manifestazioni dell'Isis: quella «terroristico asimmetrica» garantita dalle cellule attive in vari Paesi, quella virtuale in cui si muovono i «lupi solitari» reclutati in rete e quella religiosa dottrinale garantita dalle tesi wahabite che spingono tanti musulmani a simpatizzare per il Califfato. Per afferrare la dimensione «terroristico asimmetrica» dell'Isis basta guardare il grafico messo in rete da Amaq, l'agenzia stampa del Califfato. In quel grafico Siria e Irak sono indicati come aree di «maggior controllo», mentre Libia, Egitto, Yemen, Cecenia, Nigeria, Somalia, Filippine, Niger Afghanistan e Daghestan sono di «medio controllo». A queste s'aggiungono le zone con presenza di «unità segrete» come Francia, Tunisia, Libano, Bangla Desh, Arabia Saudita, Turchia e Algeria. Concluse le campagne irachene e siriane l'Occidente dovrà continuare a guardarsi dalle cellule dell'Isis presenti in tutte queste aree. Impresa non facile visto che alle cellule già operanti s'aggiungerebbero i sopravvissuti dei cinquemila jihadisti europei e dei trentamila extra-europei fuggiti dal Califfato siro-iracheno. Cifre sufficienti a garantire, seppur in una fase di crisi, una presenza «asimmetrica» assai più consistente di quella annoverata da Al Qaida al massimo delle sua potenzialità terroristica. A tutto ciò va aggiunta la componente «virtuale» del Califfato rappresentata da simpatizzanti e militanti operanti in rete. Una componente difficilmente quantificabile, ma assai pericolosa quando muove sul terreno «reale» come dimostrano la strage di Orlando negli Usa ed il successivo assassinio in Francia di un poliziotto e sua moglie. Due episodi che evidenziano l'estrema complessità di un «fronte virtuale» dove magistrati e forze di sicurezza non dispongono degli strumenti repressivi necessari a fermare dei potenziali terroristi a cui non può esser imputato, fino all'entrata in azione, alcun reato.

Il retroterra capace di trasformare lo Stato Islamico in una persistente e risorgente Fenice è garantito da regni come l'Arabia Saudita e il Qatar considerati, a torto, nostri alleati. In quei regni le dottrine wahabite e salafite praticate da governi e sudditi coincidono perfettamente con l'Islam jihadista professato dallo Stato Islamico.

Solamente costringendo queste nazioni ad adottare un Islam meno estremista e meno intollerante cancelleremo le incubatrici dell'odio e del terrore. Ma questa resta per il momento un'utopia. E finché lo sarà l'Isis, già rinato dalle ceneri di Al Qaida, potrà continuare a risorgere.

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