Se c'è una cosa che l'ex avvocato del popolo Giuseppe Conte sa fare molto bene, è annusare il vento. Non per nulla è stato filo-renziano in era Giglio magico, filo-grillino in era Vaffa, filo-salviniano in era Capitano e, da ieri, filo-zingarettiano.
All'indomani del voto che ha premiato il suo partito, il segretario Pd - senza dismettere i modi soft e il sorrisone bonario - si siede a capotavola della maggioranza, facendo pat-pat sulla spalla agli alleati grillini sbriciolati nelle urne: i numeri, regione per regione, dicono che i Cinque Stelle sarebbero stati inutili anche se alleati con il Pd: in Veneto e nelle Marche si sarebbe perso esattamente come in Liguria; in Puglia e Campania si è ampiamente vinto senza di loro. Ma «tutti insieme», avvisa il leader Pd, «raggiungiamo il 48,7%, mentre il centrodestra è al 46,5%». Poi passa a dettare a Conte l'agenda dei prossimi mesi. E il premier, incassata la concessione del no Pd al rimpasto che gli allunga la vita, si allinea prontamente.
Il segretario dem mette in chiaro la nuova situazione post voto: il Pd è «il primo partito italiano», nonché «il pilastro delle future alleanze». Dunque il governo Conte esce sì «rafforzato», ma «noi lo sosterremo finché fa le cose». Ed elenca quali: la modifica dei Decreti Sicurezza «già al prossimo Consiglio dei ministri». La messa a punto del piano per l'utilizzo del recovery fund. La presentazione immediata, da parte del ministro della Salute Speranza, di un «grande piano per la rifondazione del sistema sanitario italiano» che preveda l'attivazione del fatidico prestito Mes. Il segretario dem manda anche un chiaro avvertimento al presidente del Consiglio: nessuna richiesta di rimpasto, perché ovviamente al Pd i posti non interessano per nulla. Ma Conte si assuma tutta la responsabilità della squadra: se decide di tenersi ministri (e ministre) di scarsissimo appeal e capacità, lo fa a suo rischio e pericolo. Il Pd se ne lava le mani: «Se Conte è convinto dei suoi ministri» se li tenga, è il succo. Ma il premier deve comunque «aprire una fase nuova», «fare un salto in avanti» e scordarsi che Palazzo Chigi continui a essere il motore immobile della maggioranza, con Conte che fa e disfa in solitudine: «Si deve rafforzare il gioco di squadra: serve più visione comune da parte di chi vuole governare fino a fine mandato». Il senso è chiaro.
Conte afferra il messaggio e fa prontamente un «salto in avanti»: alla prima occasione utile, radunando i cronisti a latere di una conferenza, manda il suo «obbedisco» al Nazareno. Si blinda dietro il no al rimpasto (ipotesi che lo terrorizzava per le faide imprevedibili che avrebbe aperto dentro i partiti di maggioranza): «Sono contento della squadra di governo, tutti i ministri hanno lavorato con grande impegno. Non mi sembra che Zingaretti chieda un rimpasto, e io non ne avverto assolutamente l'esigenza», scandisce. Ciò premesso, assicura al segretario dem che sul decreti sicurezza si farà come dice lui: «Li porteremo al più presto in CdM, abbiamo già concordato il testo di modifica». Sul recovery fund giura di essere consapevole che si tratta di una «sfida storica» e che se la fallirà «il governo andrà a casa con ignominia».
Sul Mes invece continua a svicolare, arrampicandosi sugli specchi per paura dei contraccolpi nella maggioranza: «È presto, non mi pronuncio, se si porrà il problema vedremo». Ma se il Pd dice di aver fretta, allora «ce l'ho anche io».
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