Così l'invasione delle toghe ha condizionato la politica

I magistrati che si candidano creano un corto circuito Quante interferenze, da Mani pulite al caso Minzolini

Così l'invasione delle toghe ha condizionato la politica

C i provano, spesso ci riescono. È un dato di fatto che le toghe indirizzano il corso della politica. Generalmente lo fanno a senso unico. Fossimo in uno staterello potremmo anche capire. Eppure, dopo «Mani Pulite» sembrava che il compito della magistratura si fosse concluso. Neanche per sogno. L'ingresso in politica del più ruvido ed esuberante tra i pm di Mani Pulite, Antonio Di Pietro fu la rappresentazione simbolica dell'abbraccio tra politica e giustizia che ha poi avviluppato il Paese.

L'ultima puntata di questo intreccio è dell'altro ieri: Nino Di Matteo, il magistrato sotto scorta per le battaglie contro la mafia, non chiude le porte a un ingresso in politica. Potrebbe essere la svolta per il futuro del Movimento 5 Stelle. Dal marasma alla toga militante. Bastano due parole per capire tutto: «L'esperienza di un magistrato serve sempre in politica». Parole, quelle di Di Matteo, che vengono lette come impegno in prima persona, probabilmente come ministro della Giustizia. Il suo è solo l'ultimo caso di un giudice che irrompe e spariglia lo scenario politico. La madre di tutti i casi fu l'invito a comparire, spesso erroneamente scambiato per un avviso di garanzia, recapitato a Silvio Berlusconi il 22 novembre 1994 a Napoli. Era stato annunciato il giorno prima dal Corriere della Sera con uno scoop, proprio nei giorni in cui il premier presiedeva una conferenza internazionale sulla criminalità organizzata. La botta all'immagine fu inevitabile. Ma alla lunga si rivelò un boomerang, soprattutto per la tempistica del blitz. Come non citare, poi, il decreto Biondi, bollato come «salvaladri», che di fatto inaugurò la caccia al Cavaliere da parte del pool di Milano. Clamoroso, poi, il caso Minzolini. Tra i giudici della Cassazione che hanno condannato a due anni e mezzo l'ex direttore del Tg1 c'è un ex senatore e sottosegretario dell'Ulivo ai tempi di Prodi: Giannicola Sinisi. Minzolini non ha mai digerito di essere stato condannato da un magistrato che dopo essere stato in politica a lungo si è rimesso la toga e come se nulla fosse ha giudicato l'avversario. E non è certo l'unica anomalia in questa vicenda: in Cassazione, giudice relatore del processo Minzolini, fu Stefano Mogini, già capo di gabinetto del ministero della Giustizia sotto il governo di Romano Prodi e anche consigliere giuridico della delegazione italiana presso l'Onu a New York nello stesso periodo in cui Sinisi era a Washington. Può bastare? C'è poi la faccenda dell'intercettazione a babbo Renzi nell'ambito dell'inchiesta Consip. Il pm napoletano John Woodcock aveva avviato la caccia a Renzi mettendo in crisi la sua corsa a segretario del Pd, salvo poi scoprire che i verbali d'accusa sarebbero stati taroccati da un capitano dei carabinieri. «Errore imperdonabile», disse.

Da segnalare anche il caso del sindaco di Bari, Michele Emiliano del Pd che era il magistrato che indagava sulla missione «Arcobaleno». Il caso scoppia il 20 gennaio 2000. A condurre il caso va Emiliano che però, guarda un po', nel 2004 diventa sindaco di Bari con i colori del centrosinistra.

Ma, oltre a chi che entra in politica, ce ne sono tanti che la buttano lì e riescono pure a fare tendenza.

Nel corso della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2016, il primo presidente della Cassazione, Gianni Canzio, espresse un parere negativo sulla legge che punisce il reato di immigrazione clandestina. Un attacco frontale a una legge voluta dal centrodestra. Lo stesso Canzio godette di una proroga quasi ad personam per restare in carica anche oltre l'età pensionabile.

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