Così la piazza diventa solo uno slogan

L'escalation delle ultime ore è stata più o meno questa: un muro contro muro, un pugilato delle idee che non fa sperare niente di buono, anzi fa intuire tutta la debolezza strutturale, tutta la fragilità assai viziata (e pochissimo considerata) intorno a quest'immensa insegna che ci sovrasta e che amiamo definire Europa

Così la piazza diventa solo uno slogan
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Se penso all'Europa penso a qualcosa che mi è stato sempre presentato come un insieme, almeno formalmente, un complesso di terre e popoli che negli anni abbiamo chiamato prima «comunità» e poi «unione»: entrambe parole di una sacralità enorme, con potenzialità ancora dirompenti e che affondano le radici nella pratica più preziosa cui qualsiasi creatura tende, cioè la relazione con l'altro.

Da una manifestazione per l'Europa, come quella in programma oggi (a Roma e in altre città) mi aspetterei quindi una considerazione di questi aspetti, mi aspetterei profondità di visione e capacità di critica sociale, prima che politica, e soprattutto mi aspetterei coesione e senso del collettivo, là dove invece constato un istinto, meglio ancora una sorta di vocazione alla separazione. Di più, alla diatriba, all'incapacità se non alla mancata volontà di dialogare, allo scontro come strumento esclusivo di espressione: panorama decisamente triste, a cui sono da imputare le infinite polemiche di questi giorni, a cui è da imputare perfino l'allestimento di una contromanifestazione. Come dire? Se non mi fai parlare a casa tua vado a parlare da un'altra parte. Se non riesco a gridare nella piazza che hai già occupato tu cerco un'altra piazza e grido ancora più forte. Se non posso usare il tuo megafono compro un altro megafono e vedo bene di sovrastarti.

L'escalation delle ultime ore è stata più o meno questa: un muro contro muro, un pugilato delle idee che non fa sperare niente di buono, anzi fa intuire tutta la debolezza strutturale, tutta la fragilità assai viziata (e pochissimo considerata) intorno a quest'immensa insegna che ci sovrasta e che amiamo definire Europa.

Constatato ciò, ovvero il fallimento evidente di tale metodo, è opportuno ricercare alternative valide, fermandosi solo quando ad emergere non è la lotta ideologica bensì il suo contrario. Ora fra queste possibilità, è il caso che io segnali oggi l'associazione «Arbeit an Europa» (letteralmente «Lavoro sull'Europa»): un unicum del nostro continente, nata in Germania e capace di raccogliere giovani intellettuali provenienti da diversi paesi europei, me compresa.

«Quando dico lavorare per l'Europa non intendo in primo luogo l'Unione europea», così spiega Simon Strauss: scrittore, giornalista e storico, nonché presidente dell'associazione. «Si può e si dovrebbe lavorare anche su di lei, ma mi interessa qualcos'altro. L'Ue non si fonda da sola. Piuttosto, si basa su uno spirito e una storia europea comune. La nostra associazione si dedica a questo «sottofondo» spirituale e vuole contribuire in questo modo a mettere in discussione la coscienza europea»: un obiettivo certo lodevole, specie perché prima di un'Europa come perimetro politico individua un'Europa come spazio antropologico, come palinsesto su cui ancora si riscrivono identità e memorie, eternamente a rischio di perdersi e dunque meritevoli dei nostri sforzi di recupero.

Ricaviamo dunque non pochi insegnamenti da questa miracolosa finestra che è «Arbeit an Europa», dove si procede non per frasi fatte ma per riflessioni condivise, non con la rapidità di un corteo (spesso inutile, lo sappiamo) ma col tempo lungo che qualsiasi analisi richiede. Soprattutto se ha a che vedere col contemporaneo, soprattutto se si parla di Europa. Senza questo la piazza è solo uno slogan.

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