La prendiamo larga. Ma serve allontanarsi un po' per scorgere il cocuzzolo della montagna del «noismo» italiano o, volendo, per vedere le dimensioni del futuro Ponte sullo Stretto. Quattro ottobre 1964, il presidente del Consiglio Aldo Moro inaugura - con la giusta enfasi stemperata dalla sobrietà democristiana - l'autostrada del Sole che, con i suoi splendenti 764 chilometri, univa Milano a Napoli e, dunque, l'Italia. Lo stesso giorno L'unità, allora organo del Partito Comunista Italiano, dedicava un'intera pagina a irridere l'opera che aveva pervicacemente osteggiato. «La spina dorsale di un sistema rachitico» titolava il quotidiano, mettendo in dubbio l'utilità di quella arteria che più di tutte avrebbe contribuito allo sviluppo del nostro Paese. E, ancora, con sprezzo del ridicolo: «Una visione soltanto automobilistica», come se un'autostrada dovesse occuparsi, chessò, dei natanti o, peggio ancora, come se possedere una vettura fosse un perfido simbolo borghese e capitalistico. «Abbiamo l'autostrada, ma non sappiamo bene a che serve - chiosavano i cronisti comunisti -. È evidente l'impegno di spremere l'economia nazionale nella direzione di una motorizzazione individuale forzata. Dimenticando che mancano le strade normali in città e nel resto del Paese». Perché vi abbiamo consegnato questa tardiva rassegna stampa (ci scusiamo per i cinquant'anni di ritardo)? Perché quella pagina è l'albero genealogico degli antenati degli attuali boicottatori di qualsiasi grande, piccola o media opera qualsivoglia governo progetti di edificare. Cioè dei «noisti», il popolo del «no» a ogni costo, un popolo che, come vi abbiamo dimostrato, ha una tradizione decennale ben radicata nella sinistra italiana che poi è stata ereditata e incarnata alla perfezione dal Movimento 5 Stelle della decrescita e dell'immobilismo. Alle spalle degli eccitatissimi e attualissimi «No Ponte» c'è una lunga coda di «operofobici», coloro i quali sono terrorizzati da tutte le opere pubbliche o private.
I sopraccitati comunisti, giusto per fare qualche esempio e fornire qualche informazione di carattere genetico sui loro nipotini, erano anche contrari all'edificazione dei grattacieli, alla metropolitana di Milano, considerata «un inutile spreco, un tram per ricchi» e - tanto per dire - alla televisione a colori, perché esulava dall'etica dell'essenziale ed era solo «uno scandaloso affare».
Ma la mutevole genia di chi ama ostracizzare qualunque cosa non ha mai conosciuto sosta, solo recentemente abbiamo avuto a che fare con i No Tav, agguerriti e violenti nemici della linea ferroviaria ad Alta velocità da Torino a Lione; i No Tap, cioè gli attivisti che si sono battuti per anni contro la realizzazione di un gasdotto per il trasporto di metano dall'Azerbaijan all'Italia; i No rigassificatori, in questo caso equamente e trasversalmente divisi tra centrodestra e centrosinistra; i No Gronda, associazione di cittadini genovesi contrari alla costruzione di un nuovo tratto autostradale a nord del capoluogo ligure. E, se sono finite le grandi opere da boicottare, si passa ai grandi eventi, come in una sorta di megalofobia: dai No Expo, che misero a ferro e fuoco Milano, fino ai No Olimpiadi. Tutti «No» che inevitabilmente finiscono per trasformarsi in «Sì» alla decrescita del nostro Paese, perché è evidente che il benessere di una potenza industriale corre anche lungo le grandi opere: basti dire solo che il tanto vituperato Ponte avrà un impatto positivo sul Pil dello 0,17%, cioè 2,9 miliardi di euro all'anno. Solo il Ponte, senza calcolare tutto quello che ruota attorno ad esso.
Perché va così di moda il «noismo»? Perché dire «No» è semplice, ogni scusa è buona per boicottare le grandi opere: dall'ambientalismo più estremo al fanatismo del Nimby («non nel mio cortile»), fino ad arrivare a chi impedirebbe di piantare anche un cartello stradale - perché dove c'è un appalto c'è sempre corruzione! - e organizza sit-in e proteste corrucciate di fronte alla
prima buca scavata. E il Ponte sullo Stretto non poteva che catalizzare su di sé tutte queste ossessioni.Il bello è che quasi sempre i paladini del «No» si spacciano per progressisti, ma in realtà rimpiangono i cavernicoli.
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