E poi che fanno? Dove vanno? E ancora, chi avrà il coraggio anche solo di avvicinarsi a Palazzo Chigi dopo aver fatto naufragare il Recovery Plan? Chi se la sentirà di guidare un Paese in bancarotta? Siamo alle solite. I partiti ribollono, Lega e Pd litigano, la coalizione ondeggia ma il premier non abbandona il suo atteggiamento zen. Mario Draghi infatti è talmente preoccupato per la situazione politica che ha deciso di andarsene in campagna in Umbria per il fine settimana con la moglie e il cane. Dal Quirinale filtra forse un filo di allarme in più. Sergio Mattarella non interviene, però in occasione della giornata Onu parla della famiglia e la definisce «luogo di condivisione dei valori». E in un certo senso pure l'attuale turbolenta maggioranza è una famiglia, dove ci si accapiglia perché i parenti non si possono scegliere e dove comunque prima o poi ci si deve parlare perché c'è un interesse generale da, appunto, come sottolinea il capo dello Stato, «condividere».
Ma qui invece sembra di stare in una saga dei fratelli-coltelli. Matteo Salvini, dicono per liberare il posto, candida Draghi al Colle e boccia i due principali interventi di ammodernamento e semplificazione che ci chiede l'Europa per darci i fondi, la giustizia e il fisco, «impossibili con questa maggioranza». Enrico Letta risponde invitando allora il Capitano leghista a levarsi di torno. «Se dice che le riforme non si fanno, tragga le conseguenze ed esca dal governo». In tempi normali ce ne sarebbe abbastanza per aprire una crisi, o quantomeno per paralizzare l'attività ordinaria dell'esecutivo, figuriamoci se in agenda c'è un pacchetto di riforme così ambizioso da valere 200 e rotti miliardi di euro. Siccome viviamo in tempi eccezionali, la reazione ufficiale di Palazzo Chigi alle intemperanze non supera un'alzata di spalle.
Certo, Draghi già prima di accettare l'incarico supponeva che la navigazione per salvare l'Italia non sarebbe stata una crociera ai Caraibi. E Mattarella quando ha giocato l'asso sapeva di non avere altre carte a disposizione. Però adesso quella che per tre mesi pareva normale dialettica, o uno sventolare automatico di bandiere identitarie buone per marcare le differenze e tenere a bada i rispettivi bacini elettorali, ora sembra il preavviso dello scontro finale.
Il nodo principale, come previsto, riguarda la giustizia. Bruxelles, prima del via libera al piano di rinascita italiano, domanda processi veloci e magistrati che non sconfinino dal loro ruolo bloccando cantieri e ostacolando l'ammodernamento della pubblica amministrazione. Vuole sapere se i soldi stanziati saranno investiti bene o se affogheranno nella burocrazia. E paradossalmente nelle ultime ore sia Letta che Salvini si sono schierati a favore della riforma e hanno elogiato Marta Cartabia. Il segretario del Pd, come hanno notato sul Colle, per la prima volta nella storia ha abbandonato la difesa del Csm. «L'autogoverno ha fallito». Pure il leader del Caroccio ha apprezzato le proposte della guardasigilli però si è anche chiamato fuori. «La ministra ha le idee chiare, ma se sei in Parlamento con Pd e M5s per i quali chiunque passa è un presunto colpevole, è dura».
A Montecitorio il doppio no alle riforme, unito alla candidatura non richiesta di Supermario al Quirinale, viene letto come un atto ostile nei confronti del premier, un modo per dirgli che tra otto mesi dovrà sloggiare, piano Ue o non piano Ue. Anche Letta appare insofferente, non regge più l'alleanza con la Lega. E infatti da settimane rilancia temi divisivi come lo ius soli. Senza parlare dei tanti altri terreni di scontro quotidiano, dalle riaperture ai sussidi, dai migranti alla legge Zan.
Allora, siamo sull'orlo del baratro? Possiamo già rimettere nel cassetto gli incartamenti del Pnrr? Ma no, a Palazzo Chigi, abituati a valutare i fatti e non le dichiarazioni, non la vedono così nera.
Non esageriamo. Quei due tipi, Salvini e Letta, non sono gli stessi signori fotografati vicini vicini al Ghetto di Roma, dalla medesima parte? Non sono gli stessi che stanno facendo approvare tutti i decreti del governo?
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