Dal buen retiro di Città della Pieve il presidente del Consiglio Mario Draghi osserva le fibrillazioni che investono i partiti di maggioranza. Il premier resta in silenzio. La linea è chiara: far sbollire la tensione fino alla ripresa dei lavori del Consiglio dei ministri, fissata dopo il 20 agosto. Con il sì, non senza difficoltà, alla riforma della Giustizia, l'esecutivo ha messo in cassaforte un primo pezzo del pacchetto di interventi, richiesto da Bruxelles per accedere ai fondi del Pnrr.
Draghi ha derubricato le turbolenze agostane tra le forze di maggioranza a «semplici posizionamenti politici in vista del voto in autunno». Nulla che possa destabilizzare la tenuta del governo. Certo, il caso Durigon va chiuso rapidamente. Non è uno spettacolo edificante vedere tre ministri (Di Maio, Patuanelli e Dadone) invocare le dimissioni di un componente del governo del quale fanno parte. I due partiti di maggioranza, Pd e M5S, vogliono le dimissioni del sottosegretario leghista all'Economia Claudio Durigon per aver proposto di reintitolare un parco di Latina ad Arnaldo, fratello di Benito Mussolini. Draghi non sembra affatto preoccupato dal pressing di Pd e Cinquestelle. E non avrebbe, almeno per ora, alcuna intenzione di chiedere un passo indietro al sottosegretario leghista.
Altra cosa - ragionano a Palazzo Chigi se Matteo Salvini dovesse essere lui a chiedere al suo sottosegretario un passo indietro per non esporre il partito a una dura campagna mediatica. La pressione di Letta e Conte sul caso Durigon viene letta da Draghi esclusivamente in una chiave elettorale. Altro fronte aperto e chiuso rapidamente è lo scontro Salvini-Lamorgese. Il titolare del Viminale, finito nel mirino degli attacchi del leader del Carroccio per gli sbarchi e il pasticcio dei controlli sul green pass, gode della piena e incondizionata stima del capo dell'esecutivo. La poltrona del ministro Lamorgese non è mai stata in discussione. L'incontro chiarificatore Salvini-Lamorgese, suggerito dagli sherpa di Chigi, servirà a ritrovare una maggiora sintonia tra Lega e Viminale sui temi della sicurezza e dell'immigrazione. Già in altre occasioni, Draghi ha lasciato intendere ai leader (Letta) dei partiti di sinistra che il tema Ius soli non rientra tra i punti dell'agenda del suo governo. L'ex numero uno della Bce sul tema della concessione della cittadinanza ai figli di immigrati è stato abbastanza categorico: le priorità sono riforme e piano vaccini. Ed è la ragione per cui negli ultimi giorni avrebbe fatto pervenire a Letta il fastidio per la riapertura del dibattito sullo Ius soli.
C'è però un dossier che tormenta il riposo umbro del presidente del Consiglio: la riforma del Fisco. Che si incrocia con un altro fronte caldissimo: la riorganizzazione del reddito di cittadinanza. Un doppio ostacolo, che arriverà a ridosso della campagna elettorale per le comunali. Quando le forze politiche tenteranno di difendere a denti stretti le proprie bandiere ideologiche. Uno snodo cruciale per l'esecutivo. La rimodulazione del sistema fiscale italiano è un passaggio chiave nel piano Draghi. Ma soprattutto sarà il banco di prova, imposto dall'Europa, per verificare l'affidabilità del piano di riforme. Un tema su cui le posizioni di Lega e Pd sono agli antipodi. Ma soprattutto sulla partita Fisco difficilmente Salvini e Letta faranno passi indietro. Il Pd è per la patrimoniale: è la madre di tutte le battaglia del neo segretario. Il Carroccio e Forza Italia vogliono la flat tax. Non sarà semplice trovare una mediazione su un terreno così identitario.
Draghi sa bene che Ius soli, sbarchi, Durigon sono scosse di riposizionamento. Mentre il vero ostacolo da superare è la riforma del sistema tributario. Per Palazzo Chigi l'ok alla riforma è il lasciapassare necessario per arrivare al termine della legislatura. Draghi al Colle, permettendo.
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