Formigoni entra in carcere alle nove di mattina. Giustizia è fatta. Anzi, stra-fatta. Le leggi e le sentenze valgono per tutti e anche quello che fu, per molti anni, l'uomo più potente della regione più ricca d'Italia, è dietro le sbarre. Galeotta fu la Sanità, l'80 per cento del bilancio della suddetta regione, per altro simbolo di eccellenza in tutto il mondo, in primis per i connazionali non lombardi. Galeotto è ora, in senso tecnico, il Celeste, soprannome riadattato dai social dalla Metafisica di Comunione e liberazione al colore del cielo visto dietro le sbarre. Una malinconica riedizione gialloverde della stanza di Gino Paoli. Ma andiamo a lavorare sulle parole, come a me piace. Una giustizia strafatta non è solo una giustizia che si applica con rigore totale, è anche una giustizia in stato di delirio. Delirio di onnipotenza. Delirio di sottomissione una volta per tutte. Lo ha detto bene, nell'incipit del saggio che lo ha reso famoso in tutta Europa, il filosofo Zizec: la civiltà occidentale è una civiltà al tramonto perché il giudiziario ha preso il sopravvento sul politico. Tutto è corruzione, tutto è colpa, ma i tempi, l'agenda, la gerarchia dei valori, non sono più di chi fa le leggi, non sono più di chi è eletto dal cosiddetto popolo sovrano per cambiare e migliorare la realtà. Il taccuino del mondo è in mano ai magistrati. Nulla e nessuno sfugge al loro potere, costruito dalla somma di interpretazioni soggettive dei canoni e della totale mancanza di punizione per i loro errori o per i loro eccessi o per i loro paradossi. La Supergiustizia è, insomma, una Narrazione, la costruzione di un discorso totalizzante. La narrazione operaia, la narrazione liberale, la narrazione populista, sono niente al confronto. La narrazione si nutre di simboli. Un uomo di 71 anni, che non ha ucciso nessuno, semmai se stesso autopubblicandosi mentre faceva la bella vita, bella ma regalata, che entra in carcere, è un simbolo. Cinque anni a lui, e quattro a un signore che ha ucciso, in quella che passerà agli annali come sentenza Ciontoli, il caso di Marco Vannini, il giovane ferito con un'arma da fuoco e mai soccorso. Durante la lettura in aula della sentenza che portava la pena dell'accusato da 19 a 4 anni, il presidente della corte si è scagliato contro la madre della vittima che urlava per la vergogna. E che dire dell'imprenditore di Piacenza finito in carcere, per effetto anche qui della Cassazione, per aver sparato a un ladro dopo aver subito furti su furti? Tentato omicidio e non legittima difesa. Intanto i ladri che non ci hanno rimesso le penne sono liberi. Qui il termine strafatto si perde sull'asse paradigmatico della metafora (ho studiato linguistica) e sa di ubriacatura. Quella del Potere. Ma torniamo al politico. E i genitori di Renzi? Se si fossero chiamati Rossi, anzi Bianchi, perché Rossi è il presidente Pd della regione Toscana, e il loro figlio non avesse fatto politica, bastava interdire i due signori anziani dalla possibilità di gestire finanziariamente le aziende nel mirino. Basta sentire un consulente fallimentare. Dunque gli arresti domiciliari sono spettacolo. Meglio simbolo, Narrazione.
E che dire del caso Diciotti? Non è forse vero che i magistrati, contestando di fatto l'operato politico legittimo di un intero governo, hanno di fatto cambiato l'agenda mentale del suo rappresentante di maggior successo, ovvero Salvini? Hai voglia a negare che tra il voto dei 5 stelle sull'autorizzazione a procedere e l'iscrizione della Tav nel libro di Godot, colui che aspetta per antonomasia, non c'e un rapporto di causa ed effetto. Il giudiziario si è infilato come una serpe nella Narrazione di Salvini. Passando da Rousseau. Meglio dire, da Robespierre.
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