Jonathan Ive è l'uomo che molti di noi hanno in tasca, la sua essenza in forma di telefono. Jony non è un uomo tecnologico e nemmeno un businessman, perché ammette di «avere problemi ad andar d'accordo con i numeri». Però è un genio e probabilmente la persona più importante dell'hitech nel mondo, visto che Ive è il papà dell'iPhone, colui che ha dato vita alla visione di Steve Jobs e l'ha resa smartphone.
Jonathan Ive venerdì scorso era al TechFest di New York, intervistato dal Premio Pulitzer David Remnick. E questa è una notizia, anzi due. La prima perché di solito la voce senza volto del capo designer di Apple si sente solo durante il lancio dei prodotti nel video di accompagnamento. La seconda è perché il papà dell'iPhone ha parlato dell'uso improprio dell'iPhone, dicendo insomma che dobbiamo imparare utilizzarlo di meno: «Credo che essere sempre connessi sia sbagliato. Dobbiamo esercitare un po' di autocontrollo per cercare di trovare il giusto equilibrio: penso che a volte sia bello avere spazio. E riempirlo perché possiamo e non perché dobbiamo». Strano? Non proprio.
Jonathan Ive è stato paragonato da Remnick a Michelangelo e questo spiega il margine sottilissimo che divide oggi il futuro dal passato, la tecnologia dall'arte. D'altronde «pensare differente» - come recitava la frase ad effetto di uno spot che ha reso Apple quella che è - è una marchio di fabbrica che chiunque lavori a Cupertino deve portare con sé. Soprattutto un designer, a maggior ragione chi dentro a uno smartphone ci mette un'anima. Perché per Ive uno smartphone è alla fine sempre un oggetto, ovvero «il culmine di molte decisioni di un gruppo di persone che lavorano mettendo in campo quelli in cui credono». Non è solo un iPhone, è quello che rappresenta.
E allora, per dire: il prossimo modello «X» è il frutto di un lavoro in team durato 5 anni, «nel quale ho detestato molte delle cose che ho fatto, nel quale abbiamo buttato via il 99 per cento di quello che abbiamo prodotto per ricominciare ogni volta verso uno scopo. Bisogna essere curiosi, farsi continuamente delle domande ed essere sempre pronti al fallimento, perché fallire a metà strada vuol dire poter arrivare al traguardo. E si deve imparare a dire di no. Me lo ripeteva Steve: Jony ci sono misure di messa a fuoco, e uno di loro è quanto spesso si dice di no».
Steve Jobs, ovviamente: Ive ne ha parlato con tenerezza, e quello che ha detto spiega perché il papà dell'iPhone raccomanda di far attenzione con il suo figlio meraviglioso. «Ho avuto l'insegnante migliore del mondo che è diventato un amico. Quando sono arrivato in Apple era il periodo oscuro, nel quale c'erano capi che perdevano un sacco di soldi e pensavano solo a come farne di più. Quando Steve è tornato al timone non l'ho mai sentito parlare di denaro ma solo che dovevamo inventare i prodotti migliori del mondo. La prima volta che venne nel mio laboratorio mi disse che stavo facendo un lavoro totalmente inefficace e io non mi sono offeso: aveva ragione. Aveva ragione perché l'incuria nel mondo è fare le cose solo per opportunismo e per denaro; la cura è essere maniacali anche per l'interno di un telefono, sapendo che nessuno vedrà mai il frutto di tanto lavoro». La cura dunque è anche inventare l'iPhone perché «i telefoni che avevamo allora erano orribili, una vera merda». La cura è diventare cancelliere del Royal College of Art dopo aver accettato di fare la battaglia delle proprie britanniche idee «in un gruppo di hippie californiani».
La cura è parlare di futuro, dell'entusiasmo di come l'intelligenza artificiale potrà fare il bene dell'uomo ed essere contemporaneamente preoccupato, proprio perché «ci può esserne anche un uso improprio». E allora, detto questo, il consiglio di Jonathan Ive non sembra più così strano: è semplicemente logico che il papà dell'iPhone dica di usarlo un po' meno. E, per questo, naturalmente geniale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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