La giustizia non funziona, è sotto gli occhi di tutti. La separazione delle carriere è la ricetta che ha in mente da molti anni l'esecutivo, e non solo: anche un pezzo di sinistra ne è convinta. Qual è la ratio della riforma? Oggi le carriere dei pm dipendono anche dal voto dei giudici e viceversa, queste liaisons dangereuses intralciano la regolarità delle nomine, frutto più di accordi tra correnti che di reali capacità, e sporca la credibilità di tutta la magistratura, soprattutto di quella sana, la stragrande maggioranza. Le rivelazioni di Luca Palamara hanno reso plastica questa indigeribile verità. Il doppio Csm per inquirenti e giudicanti potrebbe essere la soluzione a questa stortura correntizia. È strumentale sostenere, come scrive ieri il Fatto quotidiano, che i cambi di carriera tra pm e giudice siano così pochi da rendere la separazione inutile. Perché il cuore del problema è la capacità dei capicorrente di orientare politicamente e ideologicamente l'azione di alcune Procure e di alcuni tribunali, in cambio di chissà quali garanzie e utilità. Prova ne sia il fatto che a Milano, per esempio, Marcello Viola sia stato il primo capo «straniero» a guidare la Procura meneghina e che sulla sua nomina a Roma (poi saltata) sia scoppiato il pasticcio dell'Hotel Champagne che ha trascinato nel fango mezzo Csm. Pm e giudici devono essere «nemici», non complici. Alternativi, non subalterni. «Il giudice nulla deve avere da chiedere, da pretendere e soprattutto da temere rispetto all'accusatore», sottolineava ieri sul Tempo l'ex Pg di Catanzaro Otello Lupacchini. Nei telefilm americani si vede spesso il pm che ha paura di istruire un processo con prove fragili per evitare figuracce davanti al giudice, in Italia raramente - tanto per fare un esempio - i gip si discostano dall'ipotesi accusatoria dei pm, e quando lo fanno (vedi la recente indagine sull'asse mafia, camorra e 'ndrangheta a Milano) finiscono sui giornali perché fa scalpore.
L'obiettivo non dichiarato ma inevitabile (non solo sul piano etico e deontologico) è la terzietà del giudice rispetto al pm, nel modello pensato da Giovanni Falcone all'indomani della riforma del codice del 1989. Un giudice che decide e valuta in autonomia. Senza temere che la sua carriera dipenda da una condanna.
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