Erdogan il regista per sbloccare il grano. Alza già il prezzo con Nato e Occidente

Il sultano e il vertice con Lavrov per riaprire i commerci dei cereali. L'ok degli Usa all'import di petrolio dal Venezuela per Eni e Repsol

Erdogan il regista per sbloccare il grano. Alza già il prezzo con Nato e Occidente

L'Africa spera nello sblocco del grano ucraino. E la variabile più ragionevole per scongiurare la crisi alimentare passa attraverso il Mar Nero (ancora disseminato di mine) e dagli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli. La Turchia si dice pronta a far da garante per il passaggio sicuro delle derrate alimentari. Ma c'è più d'un però. La variante tempo: quello necessario alla bonifica delle acque in prossimità di Odessa (serve almeno un mese e mezzo, con Italia e Romania in prima fila). E l'aspetto della sicurezza: la scorta armata ipotizzata da Ankara non può partire senza il via libera di Kiev e quello di Mosca (che vuol gestire il traffico dai porti che controlla).

Il circuito c'è. Le navi pure. Manca un piano che respinga i diktat russi. E ritrovarsi la Turchia di Erdogan in pole position per togliere le castagne dal fuoco (o i cerali dal sole che in un mese rischiano di marcire) espone l'Occidente a una menomazione della leadership, ripiegando dalle iniziali aspettative, e sperando che stavolta il sultano non chieda troppo in cambio. Se infatti Ankara è pronta a piazzare il secondo esercito Nato come guardaspalle dei carichi diretti nel Mediterraneo, il cosiddetto «meccanismo di osservazione» non è a costo zero; e l'apparente unica soluzione possibile rende la già intricata faccenda grano un rebus di non facile soluzione.

Da un lato la volontà di mediare, tra Mosca e Kiev, per sbloccare i porti; dall'altro il girotondo di sollecitazioni all'Occidente, con cui Erdogan piazza nuovamente sul tavolo condizioni di trattativa pro domo sua, anche su dossier che poco hanno a che vedere con lo choc alimentare globale. E molto più con i suoi affari interni. Sull'adesione di Svezia e Finlandia alla Nato, per esempio, «non cambieremo il nostro atteggiamento finché le nostre aspettative non saranno soddisfatte», ha detto ieri il presidente turco al congresso del suo Akp.

Linee rosse, acrobazie diplomatiche a cui la Turchia ha abituato i partner. Prende tempo, Erdogan; attende risposte dai due nordici, accusati di dar riparo a una trentina di membri del Pkk (considerati terroristi da Ankara) e a formazioni curde nel Nord della Siria. E chiede che Helsinki e Stoccolma revochino l'embargo sulla fornitura di armi. Mentre Washington apre all'import di petrolio dal Venezuela, dopo anni di scambi congelati, per rimpiazzare parte del greggio russo (da luglio Eni e la spagnola Repsol potrebbero importare l'oro nero venezuelano).

Il sultano ricorda la «migrazione illegale dalla Siria» già affrontata con successo per conto terzi. E punta ora a un nuovo ricavo, per risolvere lo stallo grano. Ecco perché si terrà solo «nei prossimi giorni» la riunione a tre a Istanbul per sbloccare l'export dal Mar Nero. Non c'è una data, forse neppure le condizioni per un'intesa. Solo l'annuncio di «rappresentanti» non meglio specificati di Mosca, Kiev e Onu. E mercoledì la tappa del ministro degli Esteri russo in Turchia.

Europa, Usa e Nato ancora una volta non sembrano avere altre carte in mano, se non giocare la partita con Erdogan. Un leader che già in passato ha ricattato la comunità internazionale col suo mazzo ammantato di trucchi. D'altronde ci sono 22 tonnellate di cereale da sbloccare nei depositi ucraini (mais e semi di girasole oltre a grano duro e tenero). Mosca, dopo beffarde aperture, insiste nelle minacce. Mentre il portavoce del presidente turco offre spiragli: dice che un memorandum per il passaggio delle navi cariche di grano potrebbe essere siglato. Kiev è scettica, se Mosca non firma prima l'impegno a non attaccare il territorio ucraino: ché senza la «protezione» delle mine acquatiche sarebbe più esposto.

L'Ue, dopo aver indietreggiato sull'ingresso dell'Ucraina, ha il fianco Est scoperto, è più permeabile ai ricatti dello Zar sul cibo. E in un conflitto che potrebbe diventare sempre più lungo è costretta a far (di nuovo) i conti con quel «dittatore con cui bisogna collaborare».

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