Parafrasando Eliot, agosto si conferma come il mese più crudele per le Borse, vittime ieri di un «tutte giù per terra» collettivo che ha reso i mercati una sorta di terra desolata. Con il consueto copione da black Monday: vendite a pioggia, ribassi a doppia cifra e panico diffuso ben rappresentato da quella spia della paura che è l'indice Vix, balzato sopra i 30 punti. Un risalire della marea ribassista che non si vedeva dai tempi della pandemia. Se lì era stata l'implosione dell'economia globale provocata dai lockdown ad aprire voragini nei listini, ora dilaga il pessimismo per il timore che il mondo, già scosso dai rischi di un allargamento del conflitto medio-orientale per la probabile risposta dell'Iran a Israele, possa piombare in una recessione.
Così, l'andamento degli indici segnala il collassare della narrazione sulla resilienza dell'economia al doppio choc inferto da elevata inflazione e alti tassi d'interesse; ma riflette anche il colpo di karate assestato dalla Banca del Giappone che, dopo aver alzato il costo del denaro dello 0,25% la scorsa settimana, ha messo in chiaro di voler continuare a inasprire la politica monetaria. Per la Borsa di Tokyo è stata un'autentica mazzata che ha portato alla più colossale svendita dai tempi del famoso lunedì nero dell'ottobre 1987, un terrificante -12,4% (-26% in tre settimane) che dà la misura della fine di un'epoca: quella dominata dal quarantennale carry trade nipponico da 20 trilioni di dollari (ci si indebita in yen, a tassi convenienti, per poi acquistare titoli con rendimenti più remunerativi) che è stato anche la leva finanziaria in parte responsabile della lievitazione dei prezzi dei titoli tecnologici Usa.
Il terremoto si è poi propagato all'Europa. Piazza Affari ha lasciato sul terreno 15 miliardi di euro di capitalizzazione (55 miliardi in appena tre sedute), ma fino al primo pomeriggio sembrava destinata a una vera mattanza, con il Ftse Mib crollato del 4%. Un calo poi contenuto a fine seduta al 2,26% (-2,17% l'Euro Stoxx 600) non appena dagli Stati Uniti è rimbalzata la notizia che l'indice Ism dei servizi ha superato le attese consentendo a Wall Street di limitare i danni (a un'ora dalla chiusura -2,3% il Dow Jones, -2,8% il Nasdaq). Ma sul mercato americano è più che mai acceso il dibattito se la Federal Reserve non abbia sbagliato a mantenere invariati i tassi il mese scorso. Soprattutto alla luce del pessimo dato sul mercato del lavoro in luglio (appena 125mila nuovi posti creati) e di quello della manifattura, ampiamente al di sotto di quei 50 punti che fanno da spartiacque fra espansione e contrazione dell'attività industriale. È evidente che l'avvitamento dei listini Usa delle ultimi sedute accorcia il percorso che conduce verso la recessione: il calo dei prezzi delle azioni e l'ampliamento degli spread creditizi incidono infatti sull'effetto ricchezza e intaccano gli investimenti attraverso mercati dei capitali limitati e una fiducia indebolita. Ma è altrettanto evidente che una Wall Street in rapido arretramento è anche uno strumento di pressione affinché la Fed intervenga in fretta.
Citi e JP Morgan chiedono a Jerome Powell, capo di Eccles Building, di sforbiciare di 100 punti il costo del denaro nelle prossime due riunioni; Goldman Sachs prevede tre ammorbidimenti entro fine anno, mentre Bloomberg non esclude che la banca di Washington possa addirittura decidere un taglio prima della riunione di settembre proprio per evitare che si formi un circolo vizioso tra i mercati e l'economia reale tale da innescare la recessione. Se le condizioni economiche si deteriorassero in modo significativo, la banca centrale «sistemerà il problema», ha detto il presidente della Fed di Chicago, Austan Goolsbee. Appunto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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