La finanza in rivolta sul capital-comunismo

La finanza in rivolta sul capital-comunismo

La polizia di Hong Kong ha ragione. Le manifestazioni contro la legge sull'estradizione in corso nell'antico «porto dei profumi» sono una vera rivolta. La prima rivolta della finanza internazionale contro il capital-comunismo di Pechino. Una rivolta da cui dipende il futuro di una città «quasi-stato» da dove aziende e multinazionali possono «operare» all'interno del sistema economico cinese senza ritrovarsi vittima del suo spietato e poco democratico apparato repressivo. Ora tutto questo rischia di finire. La legge in discussione al Consiglio Legislativo, il Parlamento di Hong Kong, non è come sostiene Carrie Lam, la fedele alleata di Pechino da due anni a capo dell'Esecutivo, una semplice toppa ad una falla normativa. Dietro quel progetto si nasconde il salto dal «common law» britannico, con tutte le garanzie dello stato di diritto, a quello oscuro e inappellabile del comunismo cinese con giudici e tribunali al servizio di Stato e Partito. Giudici e tribunali che potrebbero emettere sentenze, con relative richieste di estradizione, per gli amministratori delle 1300 imprese americane con sede ad Hong Kong utilizzandole come rappresaglia nell'ambito della guerra commerciale in corso con Washington. Ma lo stesso sistema potrebbe servire a neutralizzare gli amministratori di una società italiana o europea con sede legale a Hong Kong troppo competitiva nei confronti di una concorrente cinese basata a Shangai. La legge sull'estradizione, arrivata cinque anni dopo il «niet» di Pechino al suffragio universale, promette, insomma, di diventare l'ultimo colpo di spugna a quel concetto di «un paese, due sistemi» che ispirò gli accordi per il passaggio, nel 1997, di Hong Kong dalla Gran Bretagna alla Cina. In teoria quegli accordi continuano a risultare vantaggiosi anche per le aziende cinesi che ad Hong Kong possono evitare i dazi introdotti da Donald Trump o acquistare i prodotti americani ad alta tecnologia di cui è vietata l'esportazione in Cina. Piccole, ma significative finestre essenziali, in passato, per un'economia cinese alla ricerca di investitori e commesse in vista del grande salto verso la finanza internazionale. Finestre che oggi nei calcoli di Pechino sono forse diventate superflue. Il dubbio che assilla gli amministratori delle grandi aziende di Hong Kong spingendoli ad alimentare e sostenere la protesta è infatti se Pechino abbia ancora bisogno di quella piazza o preferisca invece assimilarla o, più semplicemente, annientarla. In fondo per un impero ormai presente e dominante sulle grandi piazze internazionali Hong Kong non ha più senso. Meglio controllarla e costringere le compagnie che vogliono continuare a trattare con la Cina a trasferirsi a Shangai o su qualche altra piazza dell'impero.

Anche perché solo così Pechino potrà esercitare un controllo assoluto sulla propria economia e sulla propria finanza. Senza dover far i conti con reliquie e lacciuoli dello «stato di diritto» abbandonati nell'antico «porto dei profumi».

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