Nel luglio del 2021 avevo iniziato a scrivere un libro sui tanti incontri che ho avuto con i grandi personaggi del '900 italiano. E dopo una bella collaborazione, con una preziosa introduzione al mio libro Un passo dietro Craxi (Edizioni We), chiesi al professoe e senatore Francesco Forte di potergli fare alcune domande su un uomo che aveva conosciuto da vicino e che ancora oggi continua a lasciare non solo un grande mistero sulla sua morte ma anche una grande eredità economica e politica. Il riferimento è ovviamente a Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, citato anche nel discorso di insediamento dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il professor Forte, con la gentilezza che lo contraddistingueva, non esitò a rispondere alle mie domande. Alla sua improvvisa scomparsa, avevo deciso di lasciare questa inedita intervista nel cassetto in attesa della futura pubblicazione. Ma il ritrovato interesse su una figura chiave della nostra nazione, mi ha convinto ad anticiparla, e a farla uscire oggi 27 ottobre 2022 a sessant’anni esatti dal tragico “incidente” aereo di Bascapè. Mi sia pertanto concesso di mandare un pensiero affettuoso a Francesco Forte, una mente lucida e brillante che manca all’Italia.
Professor Forte, come si diventa Enrico Mattei?
“Serve capacità imprenditoriale, che Mattei si è creato partendo da una piccola impresa marchigiana, e molta tenacia”.
È stato talmente spregiudicato nel suo modo di condurre gli affari tanto da portarlo non vicino ma direttamente alla morte?
“Mattei è stato vittima di un attentato premeditato, attuato dall’OAS, servizio segreto deviato franco-algerino, allo scopo di impedire all’Eni di operare in Algeria, con un accordo globale, riguardante il gas algerino”.
L’Italia del dopoguerra aveva intuito la sua lungimiranza?
“La lungimiranza di Mattei e la modernità dell’Eni - di cui io sono stato consulente economico dalla fondazione in poi, Gino Giugni era l’esperto per la formazione del personale - era ben nota e gli ha creato molti avversari politici e molte denigrazioni, mentre era stata capita dalle grandi multinazionali americane, che avevano deciso di allearsi con l’Eni. Sull’aereo in cui perì, vi era solo un giornalista americano, che lo intervistava in relazione agli accordi che Mattei avrebbe fatto con le sette sorelle del petrolio. Nessun dirigente dell’Eni era su quell’aereo, perché tutti sapevamo che partendo dalla Sicilia la mafia avrebbe potuto sabotarlo. Così tutti quelli che vi erano saliti all’andata, da San Donato Mianese, per l’inaugurazione della nuova e moderna raffineria Eni nel porto siculo, rimasero con un pretesto o l’altro in Sicilia e poi tornarono con aerei di linea”.
Quali erano i rapporti tra De Gasperi e Mattei? E come rimase legato politicamente alla Dc dopo la scomparsa dello statista trentino?
“Mattei aveva un rapporto particolare con Ezio Vanoni, che, a sua volta, De Gasperi aveva scelto come suo ministro per le Finanze e l’Economia, avendolo conosciuto nel 1943, quando fu fatto il Codice di Camaldoli. Io fui assunto come esperto economico, nonostante i miei 25 anni, sia perché avevo scritto saggi sulla tassazione della benzina, del gasolio, dei lubrificanti, del bollo auto come prezzo ombra per l’uso delle strade e sui pedaggi per l’uso delle autostrade, sia perché allievo e supplente di Vanoni alla sua cattedra di Scienza delle Finanze all’Università di Milano. Mattei era stato capo dei partigiani democristiani in Val d’Ossola ed era il rappresentante della Dc, nei cinque capi partigiani, che sfilarono a Milano il 25 aprile, con Pertini per i socialisti, Longo per i comunisti, il generale Cadorna per l’esercito del Regno di Italia, il cui governo provvisorio era allora a Bari”.
Montanelli lo definì come “colui che aveva legalizzato la tangente”.
“Il termine è esatto, ma con un gioco di parole, fa supporre che si tratti della illegalità diventata costume politico. Invece l’Eni faceva regolari contratti con i rappresentanti legali dei paesi petroliferi per l’uso dei loro pozzi e l’esplorazione del territorio. Solitamente costavano il 3% ed erano denunciati all’Ufficio Italiano Cambi per consentire l’esportazione legale dei capitali. Per il gas russo negli anni ‘70, l’Eni pagò una % maggiore, perché una quota andava al Pci e ci fu un condono che ne sanò l’irregolarità”.
Dalla liquidazione dell’Agip inventò l’Eni e si mise a fare concorrenza ai grandi del settore.
“L’Agip, quando Mattei la prese, aveva le piantine con i risultati delle esplorazioni petrolifere, che aveva fatto, in Libia (senza successo), in Croazia e dintorni con successo limitato, ma foriero di sviluppo, e nelle montagne di Edolo ove si era trovata la cosiddetta carbonella, che è catrame secco, indizio di petrolio, che faceva supporre che ci fosse petrolio nel Nord Italia. Gli esperti del petrolio ne erano a conoscenza e Mattei aveva chiesto di fare il capo dell’Agip perché lo sapeva, mentre gli altri pensavano che lo avesse fatto perché aveva la rete di distribuzione di benzina e gasolio. Le trivellazioni portarono alla luce poco petrolio, a Cortemaggiore e una enorme riserva di gas in Val Padana e petrolio nell’area di Novara, sotto le Alpi".
Tra le celebri battute di Mattei ce n’era una straordinaria: “Non mi entusiasma entrare in una bottega per tirare giù la saracinesca”.
“Che significava che lui era un manager innovatore, come i tanti che allora sorsero in Italia. Mattei si era iscritto all’Università Cattolica, Facoltà di Economia, con preside Marcello Boldrini, illustre statistico, nato come Mattei a Matelica, nelle Marche. E Mattei, che aveva il culto dei professori di materie economiche mise a capo dell’Agip il professor Boldrini”.
In che modo la grande finanza, dagli Agnelli, Falck a Pirelli guardavano Mattei?
“Gianni Agnelli, che io ho conosciuto personalmente lo ammirava e lo considerava un alleato per il made in Italy dell’auto. In genere invece i capi delle imprese elettriche e di quelle chimiche, che erano importanti nella finanza lo osteggiavano, come pericoloso rivale”.
L’ostilità della politica italiana, così come lo fu con tanti grandi del capitalismo lo portò a prendersi un “pezzo” di Dc e a fondare un giornale, Il Giorno, guidato da Baldacci.
“Poiché tutte le grandi imprese private avevano un giornale, Mattei fece altrettanto, per difendersi, e scelse Gaetano Baldacci, giornalista innovatore”.
Quale ritratto fa di Gaetano Baldacci? E in che modo Il Giorno dal 21 aprile 1956 rivoluzionò il giornalismo?
“Baldacci aveva un oscuro passato politico, ma poteva fare giornali di ogni indirizzo. Grazie a una équipe di eccezione, che era selezionata dall’amministratore delegato. Lanciò il primo giornale di stile americano, mettendo insieme un gruppo di giornalisti innovatori, a partire da Gianni Brera per lo Sport a Giancarlo Fusco per l’umorismo a Umberto Segre per gli Esteri. Il Giorno aveva anche la 'pagina economica' novità assoluta per l’Italia. Non trovarono nessun giornalista economico. Una settimana prima di uscire in edicola presero me, come supplente part-time, in quanto scrivevo sul settimanale Il Mercurio, articoli con la rubrica Alice nel paese dei bilanci. Segre che faceva la rubrica Esteri mi chiese di dare una mano provvisoriamente e anche l’ENI me lo chiese, riducendomi gli altri impegni. Il Giorno era di centro sinistra, io ero socialdemocratico già da studente universitario. Dopo tre mesi, non trovando un giornalista economico adeguato mi chiesero di restare. Nel frattempo Massimo Fabbri, giornalista professionista che faceva le rubriche di Borsa, aveva imparato a fare la pagina a economica e ne divenne direttore, io facevo solo il fondo. Baldacci pare facesse affari pubblicando articoli di gruppi di interesse, in cambio di soldi e fu sostituito da Italo Pietra, giornalista professionista che diede lui l’indirizzo alla parte economica”.
Come mai nei progetti industriali di Mattei molta resistenza più che all’estero la trovò in Sicilia? La politica locale e l’ombra di Cosa Nostra si misero di traverso ai suoi piani di espansione?
“A mio parere e negli ambienti dei vari settori Eni con cui avevo contatto, si aveva l’impressione che ci fosse un intreccio fra i politici locali, la mafia e interessi di ambienti francesi. Non necessariamente controllati dal governo francese, che condizionavano i nostri referenti in Sicilia nella politica e nei giornali locali e di cui si capiva solo che l’Eni era osteggiato da Cosa Nostra, ma con legami con interessi sconosciuti, non certo le multinazionali americane, con cui l’Eni aveva ormai un compromesso”.
L’intuizione di Mattei per il nucleare?
“Dopo la morte di Mattei, l’Eni si era reso conto che il nucleare non avrebbe sostituito il petrolio e la petrolchimica e che vi erano energie alternative. Per cui l’economicità del nucleare appariva sempre più dubbia mentre si ingigantiva il problema delle scorie radioattive e l’Eni divenne contrario al nucleare mentre l’Enel e gli altri lo sostenevano dicendo che esso era ostacolato dall’Eni, in cui io ormai studiavo tutte le energie alternative, compresi gli scisti bituminosi, da cui ora gli Usa ricavano gran parte del gas”.
Quali erano i legami tra l’Eni e i paesi del Medio Oriente?
“Con i paesi del Medio Oriente vi erano rapporti alterni, dipendenti dal gruppo che era al potere e dal fatto che Iran e Iraq erano rivali e che l’Eni aveva trovato petrolio in Egitto e in una zona contesa da Israele. In genere l’Eni aveva ottimi rapporti con i paesi petroliferi piccoli, come il Kuwait. La formula Eni fifty-fifty in cui la metà è di una società petrolifera Eni insieme a una società petrolifera locale in minoranza, agevolava la persistenza dei rapporti di collaborazione”.
In che modo la CIA guardava all’attivismo di Mattei?
“Per quel che ne so io, alla CIA Mattei era gradito in Africa e in Medio Oriente e in particolare in Libia e in Tunisia. Non era gradito in Russia dato che ciò creava una dipendenza dall’Urss e finanziava il Pci. Ma sulla Russia la CIA, dall’epoca del comunismo asiatico faceva il doppio gioco”.
Lei ha conosciuto privatamente e istituzionalmente figure del
calibro di Craxi, Andreotti, Fanfani ecc… come definirebbe Mattei?“Un imprenditore innovatore che amava l’Italia, ma anche i paesi poveri del terzo mondo, e concepiva l’impresa pubblica come un’impresa di mercato”.
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