Meglio i soldi della comunità internazionale o una zelante adesione ai principi del defunto Mullah Omar? Davanti questo bivio anche la travolgente vittoria dei talebani sembra esitare. E la formazione del governo chiamato a guidare il nuovo Emirato Islamico diventa il nodo della discordia capace di esporre le divisioni interne del movimento. Un movimento dove, beninteso, non esistono agnelli, ma soltanto interessi di potere confliggenti.
Quelli innanzitutto del 61enne emiro Hibatullah Akhundzada, dal 2016 leader spirituale del movimento con il titolo di «comandante dei fedeli» ereditato dal defunto mullah Omar. Da questo fanatico islamista, a cui il capo di Al Qaida Ayman Zawahiri, dedicò all'indomani della nomina una «bay'a», ovvero un giuramento di fedeltà, è difficile attendersi concessioni. Legato a doppio filo al Pakistan, da dove non è mai uscito, è il punto di riferimento di quei talebani duri e puri decisi a liquidare come un tradimento sia un' intesa con gli esponenti del deposto regime, sia un emirato dove il potere non sia nelle mani di una magistratura islamista di rigida ispirazione talebana. E l'arrivo a Kabul, con il compito di garantire la sicurezza, di Kalil Haqqani, uno dei «padrini» di quel clan familiare degli Haqqani collegato ad Al Qaida e grande intermediario tutti gli affari e traffici alla frontiera con il Pakistan, è un altro segnale. Attraverso di lui l'ala dura talebana, manovrata in parte dai servizi segreti di Islamabad, si prepara a indirizzare i negoziati per la formazione del nuovo esecutivo.
Proprio per questo la nascita di un presunto governo «inclusivo» sotto la presidenza del numero due talebano Mullah Abdul Ghani Baradar con la presenza, irrilevante, di qualche «badogliano» come l'ex presidente Hamid Karzai o il negoziatore tagiko Abdullah Abdullah non è affatto scontata. Questo non significa che il candidato alla presidenza sia un moderato. Amico d'infanzia di un Mullah Omar che lo soprannominò Baradar, ovvero «fratello», Mullah Abdul Ghani è stato uno dei quattro fondatori del movimento nel 1994 per diventare, nel 2018, il protagonista indiscusso delle trattative sul ritiro con gli americani. Ma Baradar può anche contare sull'appoggio di potenze come la Cina o di plutocrazie islamiste come quel Qatar che non ha esitato ad allestirgli un aereo militare farlo arrivare da Doha a Kandahar all'indomani della caduta di Kabul.
Ma proprio questo punto rischia di far saltare il banco talebano. Senza un governo inclusivo, come ribadiscono sia la Commissaria dell'Unione Europea Ursula von der Leyen, sia il Segretario di Stato americano Antony Blinken, sia il premier inglese Boris Johnson l'Emirato non otterrà alcun riconoscimento. «Nessun riconoscimento dei talebani, chi nega i diritti non avrà un euro», ha detto ieri la presidente dell'europarlamento. Senza quel riconoscimento, oltre a venir cancellati i 450 milioni di dollari di aiuti del Fondo Monetario Internazionale erogabili dal 23 agosto, verrà bloccato anche l'accesso ai 9 miliardi di dollari di riserve valutarie depositate presso la Federal Reserve di New York. Ma i 36 milioni di afghani rimasti nel paese non vivono, più come nel 1996, con meno di un dollaro al giorno. E gli stessi talebani hanno abbandonato l'austerità delle origini per convertirsi alla rete e ai telefonini. Dunque mandar avanti il paese potrebbe non essere facile.
Anche perché gli attuali 8 miliardi annui d'importazioni , i talebani contrappongono, secondo le stime Onu, un fatturato, basato su traffici di oppio, estorsioni, rapimenti e attività criminali che va dai 300 milioni al miliardo e 600 milioni di dollari annui. Un po' poco per sfamare il paese. Anche con l'aiuto di Allah, dei petroldollari del Qatar e la svendita a Pechino di tutte le risorse minerarie.
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