La guerra giusta è alla Cina

Siamo sicuri che quella dell'Ucraina sia la guerra giusta? E soprattutto siamo certi che Vladimir Putin sia, oggi, il nemico più pericoloso?

La guerra giusta è alla Cina

Siamo sicuri che quella dell'Ucraina sia la guerra giusta? E soprattutto siamo certi che Vladimir Putin sia, oggi, il nemico più pericoloso? I fatti di Kabul e Taiwan qualche dubbio lo suggeriscono. Ieri grazie all'eliminazione di Ayman Al Zawahiri abbiamo scoperto che il successore di Bin Laden alla testa di Al Qaida soggiornava da sette mesi nel cuore di Kabul. Il tutto in barba alle intese di Doha ratificate da Joe Biden prima della grande fuga dall'Afghanistan. Grazie a quegli incauti accordi con i talebani l'Afghanistan è tornato, insomma, un feudo alqaedista. Un risultato non proprio incoraggiante per i destini di quella libertà e di quella sicurezza internazionale di cui Vladimir Putin e Mosca sembrerebbero ormai gli unici, pericolosissimi nemici. Eppure, ultimamente, l'unica pressante preoccupazione dell'Occidente sembra quella di affibbiare alla Russia l'etichetta di «stato terrorista». Il tutto mentre anche dalle pieghe afghane emerge la perniciosità di una Cina dimostratasi prontissima a prendere il posto dell'Occidente nel restaurato regno dell'oscurantismo talebano. Un ruolo conquistato grazie alla promessa di lauti investimenti in cambio dei quali Pechino non ha preteso la rottura con Al Qaida, ma soltanto con i gruppi armati degli uighuri, la riottosa minoranza islamica repressa a colpi di sistematiche deportazioni nei campi di lavoro dello Xinjang. Le nefaste relazioni afghane sono comunque poca cosa rispetto alla minacciosa arroganza con cui Pechino ha accolto l'arrivo di Nancy Pelosi a Taipei. Anche qui il paragone con l'Ucraina è d'obbligo. Putin prima d'invadere ha cercato per otto anni di risolvere la questione attraverso l'attuazione degli accordi di Minsk sottoscritti da Parigi, Berlino e Kiev, ma rifiutati da Washington. Per contro la Cina di Xi Jinping rivendica il diritto di prendersi con la forza e senza trattative un'isola di Taiwan perduta oltre settant'anni fa. Una pratica già sperimentata a Hong Kong dove ha fatto carne di porco degli accordi che garantivano il mantenimento dello stato di diritto per almeno 50 anni. In Tibet, dove la repressione è stata accompagnata dal trasferimento di coloni cinesi, l'assimilazione è, invece, un capitolo chiuso. Il tutto senza dimenticare che la Cina di Xi Jinping è l'unico Paese in cui un premio Nobel per la Pace, il coraggioso scrittore Liu Xiao Bo, è stato fatto morire in carcere. Ma il paragone tra il nemico russo, così temuto dall'Occidente, e l'assai più riverito avversario cinese è ancor più grigio se dal piano delle libertà si passa a quello dei diritti e della democrazia. Nella Russia governata dalla «democrazia gestita» di Putin il voto e i suoi risultati sanciscono, perlomeno un diffuso «sentimento» nazionale. Nella Cina capital-comunista di Xi Jinping voto ed elezioni non sono neppure contemplati. Ma il confronto tra il nemico cinese, rimasto indisturbato nonostante le omissioni sul Covid costate milioni di vite, e quello russo, affrontato a colpi di durissime sanzioni e con dieci miliardi di forniture militari all'Ucraina, non può prescindere dall'analisi delle effettive pericolosità. Mosca è una potenza militare ed energetica priva di una capacità produttiva autonoma e soggetta, dunque, alla necessità di scambiare le proprie risorse naturali con manufatti e tecnologie europee. La Cina, al contrario, è un gigante a tutto tondo capace di imprigionarci economicamente e commercialmente in attesa di mettere a punto un esercito in grado schiacciarci militarmente.

Lo dimostra la neo-colonizzazione dell'Africa dove Pechino trasferisce manodopera, introita risorse naturali e scarica sull'Europa, sotto forma d'immigrazione, la bolla di povertà creata dal sistematico sfruttamento. Se mai salveremo l'Ucraina dalla padella di Putin saremo pronti, insomma, a cadere nelle braci della Cina di Xi Jinping.

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