In Italia un processo non si nega a nessuno: e tanto meno se è un processo da diretta televisiva, di quelli che fanno impazzire lo share a colpi di sesso, delitti, misteri. Che poi l'imputato sia colpevole o innocente, questo è un dettaglio, per i media e l'opinione pubblica. L'importante è il gossip da pretura, lo sputtanamento a base di clic.
A Genova si sarebbe potuto tenere, da questo punto di vista, il processo del secolo. Dove la si trova, una storia più arrapante di quella scovata scavando intorno alla morte di David Rossi, il portavoce del Monte dei Paschi volato dall'ufficio a Siena in una notte di sette anni fa? Ragazze e sesso, ragazzi e sesso, politici e sesso, notai e sesso: in una villa spersa nella campagna toscana, l'eterna provincia italiana si dava i suoi appuntamenti e celebrava le sue piccole trasgressioni. E anche il testimone d'accusa, roba all'altezza dei tempi: un escort di sessualità incerto, moro e pizzuto, e soprattutto assistente parlamentare di un eurodeputato leghista. Roba da far diventare famosi giudici, pm, avvocati, dattilografi addetti al maxiprocesso.
E invece no. La giudice Franca Borzone, chiamata a decidere le sorti dell'inchiesta, decide che il processo non si farà. Anche la Procura, d'altronde, aveva chiesto che tutto finisse nel dimenticatoio, spedito in quegli archivi giudiziari che racconterebbero, se aperti, un'altra versione della storia nazionale. Eppure anche giudice e pm si sono convinti che nell'indagine sulla morte di Rossi ne accaddero di cotte e di crude, al punto che sparivano i verbali di interrogatorio. Ma le «cene eleganti» di Monteriggioni non hanno rilevanza penale, e nulla c'entrano con la morte di Rossi: anche se l'ex sindaco di Siena, registrato dalle Iene, aveva detto che proprio lì, nei festini dove andava anche Rossi, c'era la chiave della morte e dell'insabbiamento.
Invece no, niente processo. Tirano un fiato i possibili imputati e i possibili testimoni, le donne di strada e le donne di famiglia che in altri processi sono state additate con nome e cognome all'eterno ludibrio di Internet. E tirano un sospiro di sollievo anche i due o più magistrati senesi che bisbocciavano e copulavano a Monteriggioni in allegra compagnia, riconosciuti ed accertati dall'inchiesta di Genova. Sono pubblici ministeri, lavoravano nella città del Monte, andavano ai festini con il povero Rossi e con la Siena bene, hanno continuato a lavorare nella Procura che intanto chiudeva in fretta e furia come suicidio l'indagine sul volo di Rossi. Ma tutto questo non merita il «vaglio dibattimentale», come lo chiamano i giudici quando mandano a processo qualcuno dalle colpe incerte. Pm, notai e politici senesi non meritano di sudare sotto le domande e le telecamere, di essere inseguiti sulle scale dei tribunali.
Per i due allegri giudici di Monteriggioni, il collega Borzone manda le carte a Roma: al massimo rischieranno un processo disciplinare, di quelli dove - come racconta Il libro nero della magistratura di Stefano Zurlo - se la cava anche gente che ne ha fatte di peggio. E comunque nel chiuso delle stanze, senza la faccia sui giornali, senza l'onta del web.
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