Se al Consiglio superiore della magistratura avessero davvero voglia di fare pulizia dell'incredibile marciume scoperto dalla Procura di Perugia indagando sull'ex consigliere Luca Palamara, dovrebbe esserci la coda da membri ansiosi di fare parte della sezione disciplinare e di accertare in fretta quanto accaduto. Invece niente di tutto questo, il procedimento contro Palamara e altri cinque ex consiglieri ieri fa finta di cominciare e poi viene rinviato di due mesi, 15 settembre: e ancora non si sa chi saranno i componenti della sezione. Perché di fatto il «caso Palamara» è una rogna di cui (tranne Piercamillo Davigo) nessuno vuole occuparsi: né per cacciare Palamara in quattro e quattr'otto, insabbiando il resto della vicenda; ma ancor meno per andare a scavare a fondo sulla rete trasversale di accordi sotterranei che ha trasformato il Csm in un supermarket delle nomine.
Ieri la «disciplinare» si limita a aprire e chiudere l'udienza, senza neanche affrontare le questioni che rischiano di bloccare tutto, ovvero la ricusazione di Davigo da parte di Palamara e dell'intera sezione disciplinare presentata - nel procedimento parallelo - da parte di Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e oggi deputato renziano. Ferri sostiene che i membri della sezione che erano già in carica quando esplose lo scandalo sono presunte vittime, secondo l'impostazione dell'accusa (che indica come «parte lesa» l'intero Csm), e quindi devono essere interrogati. E non possono essere interrogati da se stessi. Mentre l'ultima eletta, Elisabetta Chinaglia, mentre faceva campagna elettorale rilasciò una intervista di fuoco proprio contro Ferri e la sua corrente. Incompatibilità pura, dunque.
Davigo ieri annuncia la sua intenzione di restare al suo posto e di partecipare al processo a Palamara, «non vedo motivo di astenermi», dice. Ammette di avere incontrato il pm Stefano Fava, autore di un esposto contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, ma esclude che il colloquio «possa avere rilevanza per i fatti che qua esaminiamo». Il problema, dice, semmai, riguarda un altro membro del Csm, Sebastiano Ardita, che anche lui incontrò Fava: io c'ero, spiega ieri Davigo a Libero, ma ascoltavo e basta. Poco conta che Ardita sia della stessa corrente di Davigo, e che facesse parte della sezione che qualche mese fa sospese Palamara dal servizio. Quindi, quando ripartirà il procedimento, Davigo vuole esserci: sperando che si faccia in fretta, perché il 20 ottobre lui andrà in pensione. E, volente o nolente, dovrà lasciare anche il Csm. Oltretutto, Davigo sa che se dovesse farsi da parte, il suo posto nella sezione disciplinare sarebbe preso da Loredana Miccichè, di Magistratura Indipendente, stessa corrente dei coimputati di Palamara, che in questo modo si troverebbe ad avere il controllo della sezione.
La sensazione, insomma, è che tattiche personali, di corrente e di sottocorrente, stiano occupando la scena ben più della sostanza di quanto accaduto.
D'altronde quello che sta emergendo con chiarezza, e lo rimarca ieri nel suo ricorso Cosimo Ferri, è che il Csm non è in grado di processare se stesso. Gli strumenti disciplinari funzionano (male) quando si tratta di giudicare le colpe di un singolo magistrato.
Ma una vicenda senza precedenti che investe in pieno l'intero sistema dell'autogoverno della magistratura italiana è impossibile che venga sbrogliata da giudici che sono anche testimoni, vittime presunte, amici o rivali di cordata degli accusati. Il rischio, insomma, è che il processo a Palamara & C. non si faccia mai. Per questo Ferri chiede che a dettare le regole sia la Corte Costituzionale.
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