Nello scontro tra democrazie occidentali e autarchie che si dipana tra la guerra in Ucraina e la crisi mediorientale emerge un dato che induce ad una riflessione: le democrazie per loro natura sono più fragili dei regimi perché dipendono dagli umori dell'opinione pubblica che spesso è volubile.
Se Putin, Xi, gli ayatollah, come pure Hamas o hezbollah se ne fregano di quello che pensa il popolo e se decidono una guerra vanno avanti fino in fondo (sempreché non siano deposti da improbabili rivolte popolari), le democrazie non possono farlo. Basta guardare all'insofferenza con cui negli Stati Uniti e in Europa si guarda sempre più con il passare dei mesi alla solidarietà che si deve all'Ucraina. E il fenomeno è ancor più evidente nel rapporto con Israele: il giorno dopo il terribile massacro commesso dai miliziani di Hamas tutto l'Occidente era unito a sostegno della causa ebrea; nel volgere di una settimana quell'impegno è stato via via dimenticato. Nelle piazze europee, nei campus delle Università americane e nel solito guazzabuglio che accompagna sempre i movimenti pacifisti non si è più distinta l'attenzione verso il popolo palestinese e una malcelata acquiescenza se non simpatia verso le ragioni dei terroristi. Al punto che su una risoluzione a dir poco monca sul conflitto medio-orientale (per nulla attenta alle ragioni di Israele) approvata dall'assemblea dell'Onu i paesi europei hanno votato in ordine sparso: chi a favore, chi contro, chi si è astenuto. Una figura meschina che è la fotografia esatta dell'irrilevanza della Ue a livello internazionale.
Il punto è che di fronte all'accelerazione drammatica della composizione di un nuovo ordine mondiale, per resistere e per non essere travolte le democrazie debbono adeguare le proprie forme di governo. Nel campo occidentale l'unico Paese che sia pure con qualche guaio tiene botta all'intraprendenza delle autarchie sono gli Stati Uniti retti da un presidenzialismo secolare. Anche l'Inghilterra da quando è impegnata in prima fila nell'appoggio a Kiev ha cambiato tre primi ministri. In una condizione delicata come l'attuale è quasi un paradosso.
Non parliamo poi dell'Europa che sul grande scacchiere internazionale rischia di essere solo un'espressione geografica.
Ragion per cui è essenziale adeguare le nostre istituzioni, riformarle affinché siano all'altezza dei tempi. In Europa come in Italia: preservare il modello democratico significa anche questo. Nel nuovo contesto internazionale l'Europa deve parlare con una voce sola in politica estera e in politica della difesa a costo di ridurre il numero dei suoi Stati membri: conta più un'Unione più piccola ma più unita, che un'Unione più grande ma divisa, incapace di avere un ruolo negli equilibri globali.
E stesso discorso vale per l'Italia. È evidente che nella nuova fase c'è bisogno di maggiore stabilità. C'è bisogno di velocità nelle decisioni, di maggior compattezza, di governi più longevi proprio per preservare nel nuovo contesto la democrazia. L'ipotesi dell'elezione diretta del Presidente del Consiglio risponde a questa esigenza. Si poteva optare per il presidenzialismo ma si è scelta questa seconda strada, anche se è evidente che la nuova forma di governo ridurrà o rimodulerà le prerogative del Capo dello Stato. Quando si ridisegnano le istituzioni (in questo ha ragione il costituzionalista Mario Ainis) vanno evitati infingimenti.
Se in passato si è parlato molto di riforme ma non si sono fatte, ora sono i nuovi equilibri mondiali in costruzione che le esigono. Non è un problema di seconda, terza o quarta Repubblica, ma un'esigenza vitale per salvaguardare la nostra democrazia.
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