L'11 settembre delle Borse

I rendimenti bassi e la fragilità di Bot e Btp spingono gli investitori a rischiare di più. Così i saliscendi diventano normali. E nei listini finiscono anche i soldi degli enti previdenziali

L'11 settembre delle Borse

Una perdita del 13% in pochi giorni, come è accaduto alla Borsa di Milano in questa settimana, può far paura.

Con i rendimenti dei Bot a zero e quelli dei Btp decennali all'1,7% quando va bene, il solo calo di ieri di Piazza Affari, 6% in un giorno, per essere recuperato con i titoli di Stato richiederebbe - sulla carta - dai tre ai quattro anni: si tornerà in pari a fine 2018, dopo i mondiali di Russia.

Naturalmente è un paradosso. Ma bisogna partire da qui per tentare di capire cosa sta succedendo sui mercati e cosa questo abbia a che fare con tutti noi e con i nostri risparmi.

Intanto tranquilliziamoci: molto probabilmente non siamo di fronte al crash totale. Per quello c'è ancora tempo. Sono in molti a pensare che la droga di cui sono stati imbottiti i mercati di tutto il pianeta con la creazione di moneta americana, giapponese ed europea genererà un'overdose. Ma sarà un'altra storia.

Per ora la situazione appare grave, ma non del tutto seria: ricordiamoci che con il crollo di ieri, repentino quanto si vuole, il mercato azionario di Milano è solo tornato ai valori del febbraio scorso; che da inizio anno è comunque positivo del 7-8%; e che chi avesse investito in Piazza Affari nell'estate del 2012 e venduto ieri avrebbe guadagnato il 66% in tre anni. Mentre se si guarda lo spread dei rendimenti tra titoli di Stato italiani e tedeschi, arrivato 4 anni fa alla soglia choc dei 600 punti, lo si ritrova oggi a quota 131.

Il punto è che ci dobbiamo abituare a un paio di cose che ancora non ci sono del tutto familiari. La prima è che nei cosiddetti «mercati», ossia nel salire e scendere di quotazioni e indici, ci siamo dentro anche noi; la seconda è che la volatilità dei suddetti è destinata a restare a lungo assai elevata, con frequenti oscillazioni del 2-3% o anche di più. Il motivo è semplice: con la crisi dei debiti sovrani del 2011 è cambiato per sempre il rapporto tra rischio e rendimento. Fino ad allora investire i propri risparmi era semplice: chi amava il rischio aveva la Borsa, mentre chi non voleva sentir parlare di perdite di capitale si portava a casa il suo 2-3% reale (al netto dell'inflazione) con i titoli di Stato. Ma tra 2011 e 2012 abbiamo scoperto che i Btp, cioè il nostro capitale investito, potevano anche perdere valore. Erodere il famoso capitale. E non poco, bensì un'enormità: il 30 o il 40%. È successo. E così il risparmiatore occidentale ha perso la sua «verginità».

La recessione e la deflazione successive hanno fatto il resto, abbattendo i tassi d'interesse e dunque i rendimenti di Bot e Btp verso lo zero virgola. Per chi vuole un rendimento maggiore dell'1,5% l'anno, non c'è scampo: deve rischiare l'osso del collo in Borsa. Dove un mercato può mettere in piedi anche un 10% in qualche settimana. Ma così come l'ha fatto, lo può anche bruciare. E, dal momento che i mercati sono come strade dove viaggia di tutto, dalle bici ai Tir, dagli scooter alle spider, bisogna stare attenti perché le Porsche arriveranno sempre prima delle Panda nel decidere quando cominciare a vendere, quando a ricomprare.

Ecco perché si possono vivere le oscillazioni delle Borse con maggiore serenità. È il mercato, bellezza. E guai a pensare che la cosa possa non riguardarci: nelle Borse, alla ricerca di rendimenti decenti non ci sono solo i soldi di investitori giganti o speculatori furbacchioni.

Ma anche quelli dei nostri fondi comuni, fondi pensione ed enti previdenziali, ai quali versiamo i contributi da dipendenti o da liberi professionisti.

Tutti investitori che se si accontentano dei Bot, oltre a non incrementare il nostro capitale, non sono più nemmeno sicuri di conservarlo intatto.

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