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L'armocromista di destra che abbina nero e arcobaleno

Dopo dieci anni di silenzio (il suo momento politico migliore) è tornato. In tv. A spiegare chi sono i veri antifascisti...

L'armocromista di destra che abbina nero e arcobaleno

Se dovesse andare male con Elly Schlein il Pd può sempre ripartire da Gianfranco Fini. I crismi li ha. È un fiero immigrazionista (ha sempre amato quelle belle faccette nere). Ormai è un sincero antifascista (dimenticati i tempi del «Mussolini è stato il più grande statista del secolo»). È per lo Ius scholae, ma ancora un paio di ospitate da Lucia Annunziata e lo sarà anche per lo Ius soli. Si affida da tempi non sospetti a un ottimo armocromista (le famose cravatte rosa e gialle su abiti color Afrika Korps). È un europeista convinto: fosse per lui farebbe passare a tutti una bella vacanzina a Ventotene. Ma soprattutto - ecco il requisito che lo rende molto apprezzato a sinistra – fa subdolamente la fronda alla Meloni, la quale è riuscita dove lui ha fallito: arrivare al governo con i voti invece che con le trame di Palazzo. Che peccato che dieci anni fa se ne sia andato via così...
Comunque, in Italia, se ti ritiri delle scene è solo per aspettare che la gente dimentichi tutto, poi ti rifai il trucco e riappari come nuovo sul palco. E così, dopo anni di piccato silenzio, Gianfranco Fini è tornato. I casi sono due: o vuole una poltrona in Europa – e dopo Luigi Di Maio ambasciatore nel Golfo nulla è impossibile – oppure mira a un programma di approfondimento politico su La7.

Stasera va in onda lo speciale «La destra e i rigurgiti antisemiti nel Paese», conducono Gianfranco Fini e David Parenzo. E se proprio ci va male, ce lo ritroviamo in un grande rassemblement con Calenda, Conte e Elio Vito. Poi tutti a cena da Claudio Baglioni con Elly, Maurizio Landini, la Concita e Flavia Perina. Cin cin!

Domanda: ma oggi, a parte vivere da separato in casa con Elisabetta Tulliani «Ely Ely Alalà!» cosa fa tutto il giorno Gianfranco Fini? Sì, giusto: dare consigli sul governo a Giorgia Meloni che ha preso un partito al 2% ed è arrivata a Palazzo Chigi.

Fini padre della Patria subito.

Quanto ci mancava l'intercalare «vale a dire». Grazie Lucia, grazie Gianfranco. Vorremmo che Mezz'ora in più non finisse mai.

(E comunque, peggio del fascismo ci sono solo le lezioncine sul fascismo di Fini).

Bene, bene. «Italianiiiiiiiiiiiiii!!!!». Finita la sua parabola politica, purtroppo non ancora quella giudiziaria, Gianfranco Fini è diventato - ad usum sinistrae - la «buona destra», quella presentabile, democratica, antifascista (la sua) contro la destra impresentabile, antidemocratica e fascista (l'altra). E sì che è partito dalle fogne. Si dice eterogenesi dei Fini.

Ma come iniziò? Una leggenda dal sapore cinematografico narra che da ragazzo bussò alle porte di «Giovane Italia», l'associazione studentesca dell'Msi, quando, anno di scarsa grazia 1968, alcuni manifestanti di sinistra, una sera, gli impedirono di entrare in un cinema in cui davano Berretti verdi. Il sogno di diventare un eroe come John Wayne fu il suo Vietnam.

Dal mito alla Storia. Cronobiografia del lungo e inutile viaggio di Fini attraverso il fascismo.

Nato a Bulåggna, terra di tortelli e manganelli, figlio di un volontario della Repubblica Sociale, una Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza a Roma fra una laurea in Pedagogia tirata via e letture confuse «Porta avanti il suo gioco politico con una buona lucidità. Ma è privo dei supporti dottrinari. Non so se legga qualche libro. So che mischia un po' tutto: Evola e il liberismo, la conservazione e il libertarismo», disse di lui Francesco Cossiga sempre al posto giusto, sempre con gli occhiali sbagliati - «Un paio di Ray-Ban sul nulla» scrisse uno che lo conosce bene Gianfranco Fini si forma nel clima delle contestazioni degli anni Settanta, quando era chiamato «Cappuccino», quello che era solito ordinare al bar dove si rifugiava durante gli scontri di piazza, come diceva il vecchio camerata Armando. Poi la scalata del Fronte della Gioventù, di cui diventa segretario nel 1977, estratto dal fascio littorio, con sorpresa di tutti, dallo stesso Giorgio Almirante, duce e maestro, dal quale assorbe l'arte oratoria (Fini non dice mai nulla, ma lo dice sempre benissimo), il cipiglio, lo standing, ma non il carisma. Fini, al contrario di Almirante o di Pinuccio Tatarella, non è uno stratega, ma un tattico. Fa bene le cose, ma non sa il perché. Non apre le strade, ma segue quelle giuste. Nel 1983 viene eletto per la prima volta alla Camera, nell'87 succede ad Almirante alla segreteria dell'Msi (grazie al consiglio di Donna Assunta, cosa di cui poi racconterà essersi pentita amaramente), nel '93 l'investitura del Cavaliere a Casalecchio di Reno, dove simbolicamente dentro un Euromercato si svende all'iper-liberismo la componente sociale della destra, poi la svolta di Fiuggi, presidente di Alleanza Nazionale e numero due ruolo per cui è nato - del Popolo della Libertà dietro Silvio Berlusconi.

Politico a sangue freddo (introverso, costruito, mai spontaneo), uomo che crede nella nazione, Blut und Boden, «Sangue e terra», ha come proprio elemento naturale l'acqua. La pesca subacquea, gli squali a sinistra, i pescecani a destra, Fini l'eterno delfino... Arguto, raffinato, efficacissimo in tv, uno che ti fa sentire come se l'unico intelligente in giro fosse lui, scettico rispetto alla politica del «fare», preferendo quella del «dire», è sempre pronto a liquidare qualsiasi idea e non brilla di luce propria. Tra i suoi consigliori: Alessandro Ruben, politico, avvocato, ebreo, lobbista, compagno di Mara Carfagna. È l'amico amerikano, il suo apri-porte dei salotti buoni, l'uomo che gli ispira la visita a Gerusalemme del 2003. Commozione, Kippah e il «fascismo male assoluto» (una fake news: la frase si riferiva alle leggi razziali, ma la stampa prese la parte per il tutto, da cui il modo di dire «Fare di tutta l'erba un fascio»). A quel punto Fini piace a sinistra già più di quanto piaccia a destra, e fu quando Oriana Fallaci gli scrisse: «Signor Fini, ma perché come capolista dell'Ulivo non si presenta Lei?». E qui Fini commette il suo primo, unico, grande errore. Quello di pensare. Pensare che da numero due possa diventare numero uno.

Da lì, la caduta. Il lento allontanamento dalla casa del Padre, il «Che fai, mi cacci?» (Sì), che è il suo personalissimo 25 luglio, il compiacersi dell'applauso della sinistra che adesso lo apprezza solo per il suo antiberlusconismo, la scommessa sbagliata su Futuro e Libertà, quindi un'esperienza da dimenticare come immobiliarista a Montecarlo, il tonfo (0,4%) alle elezioni politiche del 2013, che è il suo otto settembre, in coalizione con Mario Monti e l'UdC. E dopo, il suo momento politico migliore: il silenzio.

Oggi Gianfranco Fini è un signore di 71 anni nato nella prima Repubblica, cresciuto nella Seconda e che rischiamo di ritrovarci nella terza, sempre inutilmente abbronzato, con le stesse giacche Coin di allora e che ha persino rinnegato los Tullianos. A parte la Lazio, ha cambiato idea su tutto.

Come sentenziò il perfido Giuseppe Ciarrapico «Chi ha tradito una volta, tradisce sempre».

E per il resto, se la destra ha fatto i conti col fascismo, come dice lui, ora è il momento di farli con Gianfranco Fini. Potremo iniziare domenica prossima dall'Annunziata. Cosa dici, Gianfra'?

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