L'Egitto è un Paese nel caos Non avremo la verità su Giulio

Indagini capillari evidenzierebbero le contraddizioni di un alleato troppo prezioso per l'Occidente. Gentiloni insiste: vogliamo sapere

Gian MicalessinNon illudiamoci. La verità sull'uccisione di Giulio Regeni non l'otterremo mai. La previsione s'iscrive purtroppo nella cornice di sangue che circonda l'Egitto dal luglio 2013, quando il colpo di stato dell'attuale presidente Abdel Fattah Al Sisi mise da parte i Fratelli Musulmani. Una cornice di sangue disegnata da una parte dal terrore islamista responsabile della morte, in 30 mesi, di oltre 570 tra poliziotti, militari e civili e dall'altra dalla durissima risposta del governo. In questo contesto da guerra civile il sequestro e l'uccisione del ventottenne ricercatore è un granello di sabbia incapace di arginare il meccanismo repressivo inducendo le autorità a sacrificare i responsabili per soddisfare le nostre richieste. Per capirlo bastano i numeri. Il 14 agosto 2013, 40 giorni dopo il colpo di stato, i militari egiziani non esitano ad assaltare piazza Rabah dove sono radunati migliaia di Fratelli Musulmani ammazzandone più di 630 e ferendone quattromila a fronte di 43 poliziotti uccisi. Da allora bombe e attacchi terroristici sono la normalità in tutto il Paese, non solo dove comanda l'Isis. A questi attacchi l'apparato di sicurezza risponde, con arresti indiscriminati, detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni. Solo nel 2015 si conterebbero 267 eliminazioni sommarie di oppositori e 159 morti sospette nelle prigioni. Queste cifre, seppur contestate dal governo, danno l'idea della capillarità dei metodi costati la vita a Regeni. Un alto responsabile della nostra sicurezza reduce dal Cairo spiegava, settimane fa, come gli egiziani giustificassero tanta brutalità con la necessità «di non venir uccisi assieme alle proprie famiglie». Difficile dunque vederli svendere una struttura essenziale per la sopravvivenza. Anche perché i nove giorni intercorsi tra la scomparsa il ritrovamento del cadavere di Regeni disegnano la vastità dell'apparato coinvolto. Dopo un arresto, forse casuale, il ricercatore varca la soglia d'un centro di detenzione e viene affidato ai propri aguzzini da qualcuno che ne approva detenzione e trattamento. Questo rende ormai impossibile una sbrigativa soluzione con l'incriminazione di qualche poliziotto balordo a cui addebitare arresto, detenzione, torture e gestione del cadavere. La minima falla implicherebbe la messa a nudo della struttura, delle autorità e della rete gerarchica responsabile del nefasto epilogo. E la macchina rischierebbe l'implosione. In tutto ciò il nostro governo non è neppure nella posizione di esercitare pressioni efficaci e persuasive anche se il ministro degli Esteri Gentiloni insiste: «Non ci accontentiamo di verità parziali». L'unico vero asso nella manica, il mega giacimento di gas Zohr frutto delle prospezioni Eni, è troppo importante per entrambe le parti per giustificare una rottura. Dal punto di vista della sicurezza siamo noi, invece, ad aver bisogno dei rapporti con un servizio di sicurezza egiziano cruciale per decifrare i movimenti jihadisti tra Medio Oriente e l'Europa. E in Libia dobbiamo misurarci con un generale Sisi che arma e finanzia, con l'appoggio di russi e sauditi, il generale Khalifa Haftar capo di stato maggiore di Tobruk. In nostra assenza Sisi potrebbe poi benissimo accordarsi con una Francia apertissima all'ipotesi di raid aerei comuni contro l'Isis. L'ultima speranza è l'America. Questa settimana il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry sarà a Washington dal Segretario di Stato John Kerry, mentre il sottosegretario Usa ai diritti umani Sarah Sewall arriverà al Cairo per il delicato tema delle libertà civili. L'uccisione del ricercatore, a contratto con l'American University del Cairo, sarà al centro dei suoi colloqui. Ma non facciamoci illusioni.

Pur avendo condannato più volte i metodi di Sisi gli Usa hanno ripreso a versargli il contributo annuo di oltre un miliardo e 300 milioni di dollari in spese militari. Segno che l'alleato sarà anche impresentabile, ma resta estremamente cruciale.

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