Riceviamo e pubblichiamo:
L’Aurelia Hospital si difende con determinazione: Giuseppe Micheli è deceduto nel 2009 a causa di una gravissima patologia cardiaca e non certo per un’infezione contratta all’interno della struttura.
La sentenza di condanna non è passata in giudicato e pertanto risulta assolutamente sorprendente che la stampa,raccogliendo un articolo diffamatorio di Repubblica.ìt,si accanisca ad un caso non ancora definito e sul quale sussistono numerose ed inspiegabili anomalie.
Infatti, il Giudice cui è stata assegnata la causa in prima battuta, raccolse una prima perizia per cui il decesso del paziente era legato all’infezione da "Acinetobacter " contratta in Aurelia. Immediatamente l’Aurelia presentò controdeduzioni ben circostanziate ed il secondo Giudice ,subentrato nel frattempo al primo, giudicava la perizia “lacunosa, incompleta e pertanto non idonea a fornire al Giudice un valido supporto tecnico al fine della decisione”,chiedendo una nuova perizia.
La seconda perizia, assolutamente favorevole all'ospedale, attribuiva il decesso esclusivamente alla gravissima cardiopatia del paziente, sottolineando peraltro come il contagio da acinetobacter ,non letale, non fosse neppure dimostrato ,come da protocollo,da due colture positive consecutive!
Ciò nonostante il Tribunale, inaspettatamente, fondava la propria decisione sulla prima consulenza pur avendola ritenuta "lacunosa ed incompleta" e senza spiegare in alcun modo le ragioni di tale incoerente decisione, condannava la struttura al risarcimento del danno.
L’Aurelia Hospital sottolinea che sia nel 2009 (anno del decesso del Sig. Micheli), sia oggi, la propria incidenza di infezioni ospedaliere, fisiologiche in tutti gli ospedali per acuti, oscilla tra l’1,5% e l’1,8% dei ricoveri,contro una media nazionale tra il 5% e l’8%.
Il Sig. Micheli , ricoverato presso il pronto Soccorso dell’Aurelia Hospital l’11 giugno del 2009 con un infarto in atto, complicato da un’emorragia polmonare, aveva già subito un precedente infarto e nonostante l’assistenza fornita dalla struttura, nel rispetto dei più stretti protocolli di cura, decedeva a distanza di dieci giorni dal ricovero, tempo troppo breve per consentire ad un’infezione da acinetobacter di essere letale, seppur in un paziente immunodepresso.
Quanto alle indagini promosse dalla commissione presieduta allora da Leoluca Orlando, essa non portò ad alcuna conclusione negativa per l'Aurelia Hospital, pienamente assolta dalla stessa, in quanto gli 80 casi di infezione evidenziati nell’anno 2009 e riferiti ad un totale di 11 mila ricoveri, riguardavano pazienti che, per lo più, avevano già in atto l’infezione al momento del ricovero nella struttura , a causa di gravi patologie. Infine e principalmente, nell’ambito di quegli 80 casi ,i 26 decessi non erano in alcun modo stati causati da infezioni batteriche ospedaliere.
Entrare in ospedale per guarire e finire invece nella morgue. Quando la corsia diventa un incubo. E non quella di una strada. In Italia si contano più morti (evitabilissime) tra barelle e reparti di degenza che negli incidenti del sabato sera. Numeri da spavento, tali da spiegare perché oggi siano tanti i malati restii a farsi «toccare». Fiducia ai minimi storici nella nostra (mala) Sanità.
«Il primo requisito di un ospedale dovrebbe essere quello di non far del male ai propri pazienti», scrisse quasi due secoli fa Florence Nightingale, infermiera britannica, pioniera degli angeli in camice bianco, nota come «la signora con la lanterna». È considerata la fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna, fu la prima ad applicare il metodo scientifico attraverso l'utilizzo della statistica. Potesse leggere le cifre di questo distopico inizio Terzio millennio, forse cambierebbe mestiere. Eccoli numeri, più o meno approssimativi ma agghiaccianti: le infezioni ospedaliere causano, ogni anno, più vittime degli incidenti stradali: 4.500-7.000 morti contro 3.419 vittime della strada (dati 2015). Si stima che, ogni anno, circa il 5-8% dei pazienti ricoverati contragga un'infezione in corsia, dunque circa 450-700 mila casi, dovuti soprattutto a infezioni urinarie, ferite chirurgiche, polmoniti, sepsi talvolta addirittura legionella. Con costi economici non indifferenti per rimediare all' «aggravamento» del quadro clinico, ovvero circa 9.000-10.500 euro a paziente. Pazienti davvero, soprattutto, nell'altra accezione del termine. Il costo stimato è di 65-70 milioni di euro annui.
Non stupisca dunque la sentenza con la quale il Tribunale di Roma (13esima sezione civile), ha riconosciuto un milione di euro di danni alla vedova di un quarantacinquenne, padre di due figli, ucciso da una infezione contratta nel luogo dove avrebbero dovuto salvargli la vita.
Giuseppe Micheli, agente di polizia penitenziaria, aveva subito un infarto e per questo si era rivolto al centro cardiologico dell'ospedale privato Aurelia Hospital (di proprietà del gruppo Garofalo) dove gli erano stati impiantati degli stent coronarici. Un intervento, ormai, di routine, senza particolari rischi. Eppure dopo qualche giorno, le sue condizioni si erano aggravate. Prima la febbre la febbre, problemi intestinali fino a che l'uomo venne trasferito in rianimazione. Correva l'anno 2009, lui morì nel giro di pochi giorni. Una ispezione della commissione Errori Sanitari della Camera presieduta da Leoluca Orlando aveva scoperto che in quella struttura dal gennaio al settembre 2009 si erano verificati ben 80 casi di infezioni ospedaliere provocate dall'acinetobacter baumanii, un batterio che si diffonde in ambienti dove igiene e pulizia risultano scarse e resiste a moltissimi antibiotici. Di quegli ottanta degenti colpiti da batterio 26 non tornarono mai più a casa.
«Spettava all'ospedale - si legge nella sentenza di condanna - dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il contagio. Ma nessuna prova contraria è stata fornita dall'Aurelia Hospital. Miceli fu colpito da tre batteri, Pseudomonas, Acinetobacter Baunami e Staphilococcus».
Una volta constata l'insorgenza dell'infezione, aggiunge la giudice, «la somministrazione di una adeguata terapia antibiotica è avvenuta solo a distanza di un giorno, malgrado la situazione clinica ingravescente del paziente».Alla clinica è venuto il mal di pancia. Tanto che ha annunciato: farà ricorso in Appello.
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