
Ieri, mentre il viso segnato di Sagui Dekel Chen affondava nei capelli biondi della moglie ritrovata che gli sussurrava il nome della loro bambina nata durante la cattività, Sharar, aurora, Netanyahu ha rotto per sempre uno stereotipo fra i tanti che gli sono stati appiccicati addosso: non si contano le manifestazioni, i titoli in cui lo si è accusato di preferire la guerra alla vita dei rapiti. Ha scelto i rapiti: e stavolta, aveva alle spalle non solo l'approvazione di Trump per potere riprendere una guerra definitiva contro Hamas, ma addirittura il suo incoraggiamento. Fossi Israele, ha detto il presidente dopo che Hamas aveva interrotto la prima fase dell'accordo, gli chiederei la restituzione di tutti i rapiti entro le 12, o sarà l'inferno.
Mezzogiorno ora israeliana è passato, e prima dell'ora americana Trump ha ripetuto il suo punto di vista aggiungendo che gli Usa saranno con Israele qualsiasi cosa decida: mezzogiorno a Washington sono le sette in Israele. Ma Bibi ha scelto di accettare il ripensamento di Hamas coi tre ostaggi previsti dallo scambio di ieri. Così, anche la ripresa degli accordi che sboccano in questi giorni nella seconda parte del patto col diavolo, quella in cui devono tornare tutti, vivi o morti, e la guerra deve finire. Questo è il punto di arrivo per Hamas, la sua speranza di ricostruire il suo potere: per questo ha scelto per la consegna i tre nella migliore condizione fisica possibile, così da invogliare alla continuazione del patto per i prossimi sei vivi previsti per questa fase. Ma mentre per Israele è indispensabile salvare i rapiti lo è altrettanto distruggere Hamas. Netanyahu compie una nuova scelta strategica, basata sull'insistito appoggio di Trump e per cui occorre pazienza come per l'attacco agli hezbollah che non fu contemporaneo a quello a Gaza nonostante dal Libano piovessero missili. Ma poi l'attacco dei cercapersone, l'eliminazione di Nasrallah e l'ingresso in Libano a l'organizzazione sciita, longa manus iraniana, ha vinto. Adesso, Netanyahu non può sottrarsi alla passione del suo popolo che in parte teso, straziato vuole recuperare i rapiti dalle mani dei nazisti di Hamas; sulla salvezza dei rapiti si è definita una lettura pervasiva di tutti i media e della politica unica al mondo. Israele è piccolo, come la famiglia dei kibbutz, dei combattenti, della solidarietà, e neanche un'opposizione determinata contro il Primo Ministro ha reso contrari allo sforzo di tenere in equilibrio il patto di restituzione con l'indispensabile necessità di salvare il Paese. Ma il fatto che adesso da Trump abbia capito a fondo con chi ha a che fare Israele, quanto sia irrealizzabile la pace con un gruppo che incarna il male assoluto, quanto la disponibilità a sostenere lo Stato Ebraico sia basato su principi di importanza superiore, come quello della difesa della democrazia e della libertà, rafforza Netanyahu probabilmente ad accorciare i tempi della prossima restituzione, almeno per i rapiti vivi. Il sostegno americano consentirà di affrontare il problema del nucleare iraniano mentre sullo sfondo si disegna l'accordo sulla faccia del futuro di Gaza sgombrandolo da Hamas col programma della emigrazione volontaria.
Per Netanyahu Trump rappresenta un disegno di pace condiviso anche se molto audace, un'occasione inusitata per rinnovare il Medio Oriente con i Paesi arabi che vorranno starci.
Il più riottoso degli interlocutori sembra sia il presidente egiziano al Sisi, che nonostante la pace con Israele ha sempre conservato un atteggiamento ambiguo, in particolare durante la guerra e nell'uso del passaggio di Rafah. L'Egitto è il confine naturale fra Hamas e il Medio Oriente, e Trump lo sa.
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