Tredici regioni registrano dati in crescita costante sui contagi, dieci si aggirano su un Rt vicino a 1, la variante inglese fa da acceleratore ai focolai, anche tra i bambini, e sembra essere più letale.
Sono i segnali della vigilia di nuove misure restrittive. Ancora una volta. Ma non necessariamente si devono tradurre in lockdown. Sull'argomento la posizione dell'Iss non è affatto leggera: analizzando i dati di inizio febbraio sulla diffusione della variante inglese, l'Istituto superiore di sanità «raccomanda di intervenire rafforzando o innalzando le misure in tutto il Paese e modulandole ulteriormente laddove più elevata è la circolazione, inibendo in ogni caso ulteriori rilasci delle attuali misure in atto».
Eppure la comunità scientifica è divisa. C'è chi invoca al più presto un nuovo lockdown e chi lo reputa irrealizzabile dopo un anno dall'inizio della pandemia. La proposta di un blocco totale lanciata dal consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza, Walter Ricciardi, ha scatenato un fiume di reazioni. Al di là delle modalità con cui Ricciardi ha esternato la sua posizione (prima agli organi di stampa che alle istituzioni), è la sostanza che non trova d'accordo i virologi. E non è questione di essere allarmisti o no.
Dopo aver verificato che ormai la variante inglese rappresenta il 20% (e in certe zone anche più) dei contagi, Andrea Crisanti, virologo dell'Università di Padova, non usa mezzi termini: «Ormai serve il lockdown, le zone rosse non bastano per contenere le varianti, andava già fatto a dicembre». Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, sostiene che «un lockdown totale per due settimane farebbe abbassare la curva per poter riprendere il tracciamento, altrimenti bisognerà continuare con stop&go per tutto il 2021».
D'accordo anche Massimo Galli, infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano, che purtroppo si trova a ripetere la frase che nessuno vorrebbe sentire e sostiene che il metodo delle regioni colorate sia stato fallimentare. «Se vacciniamo molto - sostiene Galli - riusciremo a essere fuori dai guai prima. E sul vaccino credo non ci siano dubbi: serve un governo centrale forte, in grado di coordinare la campagna vaccinale al meglio e che abbia anche la capacità di sfruttare ogni possibile risorsa anche a livello periferico, possibilmente non in contrasto, ma in coordinamento. Si deve agire tutti dalla stessa parte».
Più favorevole alle zone rosse anziché al lockdown come quello dello scorso marzo è Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore sanitario dell'ospedale Galeazzi di Milano: «Da un punto di vista medico le chiusure sono la scelta migliore ma intere filiere di lavoratori sono devastate e serpeggia grande ribellione sociale, bisogna valutare anche la sostenibilità di una chiusura così rigida. Dobbiamo stringere i denti ancora due o tre mesi, magari ritarando il passaggio delle Regioni da un colore e l'altro, istituendo zone rosse ad hoc nelle zone dove nascono focolai». Contrario al lockdown è Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, che lo definisce «un misura barbara».
Si oppone anche Roberto Burioni, virologo al San Raffaele, secondo cui «le chiusure servono solo a guadagnare tempo e la soluzione sta nel vaccino». «Un lockdown severo oggi sarebbe un disastro dal punto di vista psicologico, sociale ed economico» sostiene Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di Microbiologia clinica del Sacco.
«Oggi non si può fare più ciò che si è fatto a marzo scorso.
Non ci sono le condizioni per fare quel tipo di lockdown che aveva dato risultati - sostiene Carlo Signorelli, docente di Igiene e Sanità pubblica all'università Vita-Salute San Raffaele - Dobbiamo pensare a misure mirate, possibilmente, con supporto ed evidenza scientifica, che facciano circolare meno il virus». L'ultima parola starà al Cts e al ministro Speranza.
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