Dalla lotta al Cav alle espulsioni degli indagati le battaglie forcaiole dei grillini giustizialisti

L'anima manettara si è ammorbidita solo dopo i guai della sindaca Raggi

Dalla lotta al Cav alle espulsioni degli indagati le battaglie forcaiole dei grillini giustizialisti

Le scuse di Luigi Di Maio all'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti segnano una svolta nella storia del M5s. Questo perché le manette sono da sempre la ragione sociale dei Cinque Stelle. Anzi, potremmo dire che i grillini sono giustizialisti da prima che nascessero. Basta leggere le cronache del 10 giugno 2009, quattro mesi prima della fondazione del Movimento. Beppe Grillo quel giorno mette in piedi uno show manettaro durante un'audizione in Commissione Affari Costituzionali al Senato. Nei resoconti giornalistici dell'epoca il futuro leader stellato viene definito ancora «comico e blogger». Eppure le idee sono chiarissime. I toni da Torquemada. L'occasione è la presentazione di un ddl di iniziativa popolare sulla legge elettorale e sul «Parlamento pulito». Beppe dice basta ai condannati in Parlamento, ma parla di «scandalo» anche riferendosi agli indagati che siedono nelle aule parlamentari. Il tutto condito da frasi di questo tipo: «Sei persone hanno scelto chi mandare in Parlamento: amici, avvocati e, scusate, anche qualche zoccola».

La cornice di quell'esordio è l'antiberlusconismo più feroce. «Al Tappone» e «psiconano» sono solo due degli appellativi usati negli anni da Grillo contro Silvio Berlusconi. «Dovrebbe stare in carcere», dice il comico nel 2013 dopo la condanna del leader di Forza Italia. Parole che oggi risuonano ancora più sinistre, dopo i recentissimi chiarimenti chiesti dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo proprio sulle motivazioni e il contesto politico di quella sentenza. D'altronde nel M5s bastava un semplice avviso di garanzia per essere espulsi e costretti a dimettersi dalle cariche pubbliche. Almeno fino al 2 gennaio 2017, giorno in cui Grillo presenta il nuovo «Codice Etico» per gli eletti grillini. Cade l'automatismo per cui ogni inquisito veniva cacciato dal M5s. Primi scricchiolii nel mostro manettaro. La norma è chiamata «Salva-Raggi», perché la sindaca di Roma in quel periodo stava per essere mandata a processo per l'inchiesta sulle nomine in Campidoglio. Sorte diversa per il sindaco di Parma Federico Pizzarotti. Che nel 2016 viene sbattuto fuori senza troppi complimenti per un avviso di garanzia. Nonostante il «Salva-Raggi», si torna alla ghigliottina per Marcello De Vito, presidente grillino dell'Assemblea capitolina arrestato a marzo di due anni fa per presunte tangenti per il nuovo Stadio della Roma. Luigi Di Maio, allora capo politico, è inflessibile. De Vito è espulso per direttissima. Restando a Roma, come dimenticare la scena del 2014 in cui si vede l'allora consigliera comunale Virginia Raggi che mostra delle arance - frutto che tradizionalmente si porta ai detenuti - durante una conferenza stampa per sbeffeggiare il sindaco Ignazio Marino, coinvolto nel «caso-scontrini». Accusato di peculato, Marino viene assolto in Cassazione nel 2019.

Più recenti le battaglie dell'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Dalla «Spazzacorrotti» allo stop alla prescrizione dopo la condanna in primo grado. Ma le dimostrazioni del giustizialismo più violento sono sempre negli attacchi personali contro gli avversari. Come Maria Elena Boschi, linciata dai grillini per un avviso di garanzia ricevuto dal padre a gennaio 2016.

Linciaggio a cui è sottoposto anche Matteo Renzi per il coinvolgimento del padre nell'inchiesta Consip. E poi la lista degli «impresentabili» diffusa da Di Maio prima delle politiche del 2018. Per finire nell'elenco bastava essere indagati. Senza scuse.

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