L'ultima metamorfosi di Matteo Parole chiare (ma meno dure)

L'ultima metamorfosi di Matteo Parole chiare (ma meno dure)

La recente storia politica di Matteo Salvini racconta di un leader che, nelle tattiche e strategie espressive messe di volta in volta in campo, non ha sbagliato finora un colpo.

Se non ce n'è per nessuno, Berlusconi a parte, la colpa è anche di una concorrenza risibile, impreparata o inadeguata a contenere un inarrestabile ciclone mediatico come lui, ma è pur vero che per arrivare, in aggiunta alla determinazione e a un istinto comunicativo quasi animalesco, Salvini ci ha messo molto del suo: una pianificata reticenza emotiva, un'impassibilità muscolare da bronzo di Riace, una «leggerezza» linguistica che non hanno eguali nella storia della comunicazione politica al tempo della Seconda Repubblica. Tanto che ultimamente sta addolcendo il suo registro linguistico: l'ultimo esempio l'altra sera durante la visita alle cucine del ristorante del carcere di Bollate vicino Milano, dove ha annunciato di non voler dire mai più l'espressione «marcire in galera». Che aveva più volte usato quando si parlava dei delinquenti protagonisti di reati come violenza sulle donne e terrorismo o per difendere la sua riforma sulla legittima difesa.

All'inizio erano due gli slogan che hanno guidato la campagna per le politiche del 4 marzo 2018: «La rivoluzione del buonsenso» e «Prima gli italiani». Sul secondo, un vero tormentone elettorale, il camaleontismo di Salvini ha impresso il suo potente marchio di fabbrica. L'effetto sorpresa di un'abile variazione sul tema («Prima i molisani»), che ha scambiato l'elmo scipionico del sovranismo tricolore col bianco campanile borbonico di un meridionalismo «medio», ha spiazzato un po' tutti. I vecchi vessilli del primatismo nordico per l'assegnazione delle case popolari ai cittadini residenti, liguri o lombardi, veneti o piemontesi, trentini o friulani (e poi emiliani, toscani, umbri, marchigiani...), sono un lontano ricordo al pari di altre storiche bandiere leghiste.

Dalle Alpi e gli Appennini all'Etna e al Vesuvio, dai templi di fuoco fino a ieri antropomorfizzati dall'Italia razzista, per invocarne un risveglio portatore di distruzione e di morte, ai luoghi elettivi al cui interno forgiare, una volta penetrati, armi sempre nuove per un (super)eroe dei tempi moderni: questo è riuscito incredibilmente di fare a Salvini.

Per contrastarlo - almeno per ora - non c'è kriptonite o tallone d'Achille che tenga. Anche lo specchio d'acqua che fu fatale a Narciso non può nulla contro di lui, perché il leader leghista sembra riuscire a proteggersi perfino dal suo ego, dal pericolo mortale del cieco innamoramento di sé costato caro all'altro Matteo. Come l'altro giorno, quando sullo ius soli all'eroe del bus dirottato e dato alle fiamme prima ha detto «non siamo al Luna park» poi ha detto «è come mio figlio».

E se gli italiani si sono fino a ieri rispecchiati nei loro leader politici, con un «amicone» social come lui lo schema si è aggiornato e perfezionato in un congegno micidiale: sforzandosi (e neanche più di tanto) di rispecchiare la vita ordinaria della

gente comune, anche nei suoi repentini cambiamenti umorali d'opinione, Matteo Salvini può smarcarsi da se stesso con la nonchalance di chi ha perfettamente compreso che siamo piombati da un po' in un mutazionismo sconfinato.

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