Lunghe code per votare il «sondaggio» sull'indipendenza della regione autonoma spagnola

Le schede nelle urne con le due facce trasparenti non hanno valore legale, ma nel giorno dei 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino è chiaro che si vive anche di simboli. Dopo la sconfitta del separatismo scozzese quello di ieri in Catalogna non è un referendum, ma un fatto altamente simbolico sì. Un atto di militanza, espressione di orgogliosa appartenenza. Il governo e la Corte costituzionale lo hanno bocciato, il partito di centro UPyD ha denunciato il governatore Artur Mas per disobbedienza e abuso di potere, poco dopo i magistrati hanno replicato che un sequestro delle urne sarebbe una risposta giudiziaria «sproporzionata». Nella grande questione dei movimenti autonomisti in Europa, è il capitolo 2. Manca il crisma dell'ufficialità come a Edimburgo, ma la vera forza d'urto la riveleranno oggi i numeri definitivi, quando sapremo in quanti sono andati a mettere nero su bianco quel «Sì» alle due domande: «Vuole che la Catalogna sia uno stato? E, in caso affermativo, vuole che questo stato sia indipendente?». I primi dati di affluenza - alle ore 13 già 1,14 milioni di catalani (poi diventati 2 milioni alle ore 18, ovvero il 37,74%) sui 5 milioni e 400mila aventi diritto - e le lunghe file davanti a quei seggi autorganizzati sono una prima risposta al nuovo test, dopo la débâcle di Alex Salmond in Scozia. Perché allargando lo sguardo oltre i confini iberici, oltre quelle due domande che tengono da mesi Madrid e Barcellona l'una contro l'altra armate, c'è un'Europa sempre meno unita anche dentro i singoli Stati che uniti lo sono già, da secoli. Il punto è capire se le bandiere che ieri si affacciavano dai balconi delle case catalane decretano che la questione autodeterminazione esiste davvero. O se siamo di fronte a impulsi nazionalisti di una fetta minoritaria della popolazione.

I contrari ci sono: le manifestazioni pro unità nazionale dei movimenti «Todos somo Catalunya» e «Libres e Iguales» in 60 città, ieri le 5 persone arrestate per aver tentato di distruggere le urne nella scuola alberghiera di Girona; altre sei, con in mano la Gazzetta ufficiale spagnola e al grido di «es ilegal» hanno protestato a San Vincente dels Horts mentre votava Oriol Junqueras, sindaco e leader del partito di sinistra indipendentista Erc. «Qualunque atto fuori luogo è un attacco diretto alla democrazia e ai diritti fondamentali di espressione», ha detto Mas. Si divide la gente e anche il mondo intellettuale: il regista Ken Loach e il docente della London School of Economics Paul Preston schierati a favore, lo scrittore Mario Vargas Llosa che ha definito, sul New York Times , questo voto «una minaccia alla democrazia spagnola». Comunque la si veda ieri è stato un giorno importante: 7mila poliziotti, 450 agenti antisommossa in tutta la Catalogna (tranne 6 comuni, tra le province di Tarragona e Lleida, dove i sindaci non hanno aperto le scuole per la consultazione, e i residenti che volevano esprimersi hanno dovuto cercare altrove il primo seggio utile).

Per la Catalogna il giorno dei nodi da sciogliere è oggi: voto anticipato come vuole l'Assemblea Nacional Catalana, o via istituzionale, come vuole il presidente Mas, che chiede a Rajoy la riapertura ufficiale del dialogo e la convocazione di un referendum. Vero, stavolta. Per l'Europa, invece, la questione è più complessa.

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