Potrebbe essere, e Dio non voglia, un'altra guerra dei trent'anni. Di matrice assai diversa, naturalmente, da quella che insanguinò l'Europa nella prima metà del diciassettesimo secolo. Ma che possa durare altrettanto, a meno di rivolgimenti al momento non prevedibili nel magmatico calderone del fanatismo islamico, sono ormai molti a prevederlo. Quindici anni sono già passati. E alla mezzanotte dell'altro ieri, alla discoteca «Reina» di Istanbul siamo entrati nel sedicesimo. La vinceremo noi, questa guerra. Ma sarà dura, e il tributo di sangue che dovremo pagare alla masnada di mascalzoni vigliacchi che pretendono di interpretare la volontà di Allah ammazzando ragazzi e ragazze indifesi che si aggirano fra il mercatino di Natale a Berlino, o aspettano la mezzanotte di un ultimo dell'anno ballando sul Bosforo sarà alto, intollerabilmente alto.
Chi scrive era a Madrid, l'11 marzo 2004. Eravamo lì per raccontare le elezioni politiche generali che si sarebbero tenute tre giorni dopo. La mattina di quel giorno, dieci zaini riempiti con esplosivo furono fatti esplodere su quattro treni regionali in quattro stazioni della capitale, tra cui quella centralissima di Atocha. Morirono 191 persone. Duemila furono i feriti in quello che a tutt'oggi resta il più sanguinoso attentato di matrice islamica compiuto in Europa.
L'anno successivo, il 2005, toccò a Londra. Il giorno precedente la birra era corsa a fiumi, nei pub, per celebrare la scelta della capitale inglese come sede delle Olimpiadi del 2012. Il mattino del 7 luglio quattro ragazzotti nati e cresciuti in Gran Bretagna si avviarono, ciascuno con uno zainetto sulle spalle imbottito di esplosivo, verso la stazione del metrò di King's Cross. Tre degli attentatori si fecero esplodere sulla Circle line e la Piccadilly line. Il quarto, staccatosi dal gruppo, si fece saltare poco più tardi su un autobus a due piani dalle parti di Marble Arch. Cinquantasei furono i morti, compresi gli attentatori, e circa 700 i feriti. Rivendicò Al Qaida, il network terroristico messo in piedi dalla buonanima di Osama Bin Laden. Seguirono sette anni di relativo «sonno». Ma forse sarebbe meglio dire, «di preparazione». Di strategie discusse ed elaborate nelle madrasse (le scuole islamiche) d'Oriente non meno che nelle moschee di mezza Europa. Del 7 gennaio 2015 è l'attacco al giornale satirico «Charlie Hebdo», a Parigi: 12 morti, da aggiungere ai quattro ammazzati qualche giorno dopo in un supermercato kosher. Una scia di sangue che lambisce ancora la Turchia, dove tra il luglio e l'ottobre 2015 muoiono in due attentati, per mano dell'Isis, quasi centoquaranta curdi.
Ma rieccoci in Europa. Con 130 morti in tre attacchi coordinati a Parigi e dintorni, a novembre. Sotto tiro lo Stade de France a Saint Denis; bar, ristoranti, e la sala concerti «Bataclan». E' la più cruenta aggressione in territorio francese dalla seconda guerra mondiale. Il 22 marzo i jihadisti scendono sul sentiero di guerra in Belgio: aeroporto di Zaventem e stazione del metro di Maalbeek. Trentuno morti e 300 feriti.
E siamo all'anno scorso, 2016. Nasce la «moda» del camion lanciato sulla folla. Sulla Promenade des Anglais oltre 70 persone muoiono e 130 restano ferite sotto le ruote di un camion che falcia la folla.
La stagione degli attentati riprende vigore in Turchia l'11 dicembre: 38 morti per un'autobomba davanti allo stadio del Besiktas a Istanbul.
Poi è la volta del mercatino di Berlino, con 12 morti e 56 feriti falciati dal camion guidato dal terrorista Anis Amri, eliminato dalla nostra politzia a Sesto San Giovanni il giorno dopo l'attentato. Ora il pendolo, nella sua corsa mortale, è tornato in Turchia. Comincia il sedicesimo anno di guerra.
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