In Italia c'è chi ottiene la protezione internazionale perché ha famiglia, chi perché ha un problema di salute, chi perché si è integrato nella società e anche chi incolpa i nostri uffici di averlo indotto alla clandestinità. A dirlo sono alcune delle sentenze - di cui Il Giornale è in possesso - più assurde emesse negli ultimi mesi dai giudici pro immigrazione, quelli che spalleggiano quella sinistra che sembrerebbe privilegiare l'illegalità. Quelli che, come Silvia Albano e Damiana Colla - del Tribunale dei Migranti di Roma - proprio ieri non hanno convalidato il fermo per i migranti trattenuti in Albania. La più recente è la sentenza del Tribunale di Roma contro la questura di Roma. Protagonista un tunisino arrivato in Italia il 6 aprile 2022 con un permesso di soggiorno, scaduto poi il 7 marzo 2023. Da quel momento l'uomo, in stato di clandestinità, decide di fare avanti e indietro tra l'Italia e il suo paese d'origine fino al novembre 2023 quando arriva il provvedimento di espulsione. Il Tribunale di Roma ribalta però la decisione: l'uomo soffre di diabete, è in cura presso l'asl della capitale e deve sottoporsi all'insulina ogni giorno. Condizione che gli permette di ottenere la protezione internazionale. «Patologia che richiede un'assistenza periodica a lungo termine di cui il ricorrente non avrebbe potuto beneficiare nel suo paese d'origine dove l'accesso gratuito alle cure è limitato» scrivono i giudici nelle motivazioni, firmate dai «soliti noti» della magistratura targata Pd, Albano e Colla. In Tunisia spesso si deve effettuare «il pagamento di tangenti per ottenere l'assistenza sanitaria» e quindi le cure le paghiamo noi italiani. Storia simile per un filippino, in Italia dal 1998 e con permesso scaduto nel 2012. Ben 12 anni di clandestinità e con un ordine di espulsione da parte del Prefetto di Roma, emesso nel 2019. Ma il Tribunale per i migranti sostiene che «sebbene sprovvisto di permesso di soggiorno ha tutti i legami familiari in Italia» e quindi «non emergono condivisibili le deduzioni per cui il ricorrente non abbia titolo per restare sul territorio nazionale» e ancora «l'espulsione del ricorrente comporterebbe una violazione dei suoi diritti fondamentali».
Il caso più eclatante però coinvolge un senegalese al quale nel 2017 viene respinta la protezione internazionale dalla Questura di Campobasso. Nonostante ciò resta sul nostro territorio da clandestino, ottenendo anche un decreto di espulsione nel 2023. A «salvare» lo straniero è la Corte di Cassazione che dà la colpa agli uffici amministrativi italiani. «Lo straniero si era recato in questura per presentare di nuovo domanda di protezione internazionale ma non era riuscito a formalizzarla per colpa degli uffici a cui si era rivolto». E ancora: «La condotta tenuta dagli uffici amministrativi aveva precluso al ricorrente di presentare la propria domanda reiterata». Insomma i nostri funzionari hanno indotto alla clandestinità il migrante, per 5 lunghi anni. C'è anche chi, infine, gioca la carta della famosa «integrazione»: un altro senegalese in Italia dal 2016, da sempre senza nessun titolo e con decreto di espulsione emesso dalla Questura di Taranto. Il Tribunale di Lecce però riconosce che «il ricorrente ha dato prova di aver seguito due corsi di formazione professionale» e per questo «deve quindi ritenersi che egli stia compiendo un apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale.
Pertanto si ravvisa una concreta integrazione tanto da meritare riconoscimento e protezione». Insomma tutti possono entrare e nessuno può essere rimpatriato: ecco la grande battaglia della sinistra per gli amici che «affrontano il mare».
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