Senatore Andrea Marcucci, voi del Partito democratico avete appuntamento il 13 gennaio, con la direzione e i gruppi, per decidere una linea sul Quirinale. Intanto però ognuno dice la sua, da Goffredo Bettini a Andrea Orlando al vostro alleato del cuore Giuseppe Conte. A cosa è dovuta questa grande agitazione?
«Ho trovato inutile la pretesa che non si parlasse di Quirinale, perché naturalmente, come infatti è avvenuto, sarebbe stata disattesa. Hanno diritto di parola Bettini, Orlando, e quindi anche io: deve essere la nostra regola, niente di strano. Certo avrei trovato forse più consona una convocazione anticipata rispetto al 13 gennaio: il rischio di frammentazione in Parlamento, un rischio dal quale non siamo esclusi noi, andrebbe contrastata prima e più approfonditamente. Credo che sia naturale anche l'agitazione della vigilia, sarà una elezione particolarmente complessa, e potrebbe coinvolgere anche Palazzo Chigi. Agitazione non vuol dire pressapochismo: i leader sono chiamati a valutazioni precise e non devono sparare nel mucchio, con indicazioni generiche».
Raccontano nel Pd che il segretario Enrico Letta sia estremamente seccato per la fuga in avanti di Conte, che lancia nomi e apre al centrodestra. Il patto di ferro si è incrinato e l'alleanza rossogialla comincia a scricchiolare?
«Non ho mai pensato possibile che la scelta del capo dello Stato potesse avvenire soltanto con il dialogo tra due forze politiche, che peraltro non hanno numeri sufficienti. Bisogna sporcarsi le mani, parlare con il centrodestra, senza mai perdere di vista i numeri ed i quorum delle varie votazioni. Il Pd può recuperare ancora un ruolo centrale, facendo con umiltà e determinazione questo lavoro, e contribuire così all'elezione di un presidente della Repubblica che possa essere il degno erede di Sergio Mattarella. Non è ancora troppo tardi, ma bisogna pur cominciare».
Il Pd è il solo partito che si è mostrato possibilista su una candidatura Draghi. Cosa spiega questa grande ostilità degli apparati di ogni colore (anche tra i dem) contro un candidato prestigioso e naturale come l'attuale premier?
«Io sono tra coloro che in precedenza hanno espresso un'opinione. Se scegliessi io, terrei Mario Draghi a Palazzo Chigi anche dopo il 2023, per la funzione così importante e delicata che sta svolgendo, e pensando all'interesse nazionale. Ma visto che naturalmente non scelgo io, i leader e i grandi elettori che stanno maturando la convinzione di proporre Draghi per il Quirinale fanno bene a lavorare ad un accordo complessivo, particolarmente autorevole per Palazzo Chigi, al fine di garantire il termine naturale della legislatura. Segnalo nuovamente che abbiamo un'urgenza democratica: cambiare la legge elettorale».
Lei crede che se la maggioranza che elegge il presidente della Repubblica fosse diversa da quella di governo, il Pd potrebbe spingersi ad aprire una crisi?
«Durante le elezioni del capo dello Stato, in passato, ho visto maggioranze di ogni tipo. La Costituzione ci dice quanti numeri servono, non di che colore devono essere i numeri. Non vorrei citare Deng Xiaoping: Non importa se il gatto è bianco o nero, l'importante è che acchiappi i topi. Detto questo, sottolineo che più è ampia la maggioranza che elegge il capo dello Stato, meglio è».
Se Draghi andasse al Quirinale
cosa accadrebbe al governo?«Con il Pnrr da affinare, la pandemia e la nuova crisi del sistema turistico da affrontare, e la legge elettorale assolutamente da modificare, la legislatura deve concludersi nel 2023».
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