Matteo Renzi e il Pd, storia di un amore mai nato

Dopo 12 anni, Matteo Renzi dice addio al Pd. Lo fa accusando i suoi ex compagni di "fuoco amico", lo stesso che lui ha sparato contro suoi avversari interni al partito. Con cui non si è mai identificato davvero

Matteo Renzi e il Pd, storia di un amore mai nato

Dodici lunghi anni, per la precisione 11 anni e 11 mesi. Tanto è durata la militanza politica di Matteo Renzi nel Pd. Due lustri e poco più di dibattiti, confronti e discussioni. Ma soprattutto screzi, litigi e attacchi reciproci. Sì perché l'ex premier, nel partito fondato da Walter Veltroni il 14 ottobre 2007 per unire la tradizione comunista a quella cattolica, non si è mai sentito a casa. Meglio le quattro mura del Partito popolare italiano, con cui Renzi aveva cominciato la sua avventura politica nel lontano 1996. Aveva solo 21 anni, Matteo, ma già le idee molto chiare. E apprezzate dai dirigenti del Ppi, che lo avevano promosso segretario giovanile e poi provinciale, ovviamente a Firenze. Nel 2001 l'adesione dei popolari alla Margherita, Renzi li segue.

Poi il primo grande incarico da presidente della provincia fiorentina, sporcato da una condanna per danno erariale (annullata in appello dalla Corte dei Conti). Matteo, però, non si accontenta. Vuole qualcosa di più. Un anno dopo la nascita del Pd, si candida a sindaco di Firenze e vince al ballottaggio. La sua scalata continua. Nel 2009 entra nella Direzione nazionale democrat e comincia a far parlare di sé. L'ambizione lo porta, l'anno successivo, ad andare ad Arcore per incontrare Silvio Berlusconi. È lì che inizia la via crucis di Renzi, travolto dalle critiche del popolo della sinistra, colleghi ed elettori. Con i quali non c'è, eufemismo, grande sintonia.

Per lui bisogna sbaraccare tutto. Il 29 agosto 2010 fonda il movimento dei Rottamatori. A novembre, con i suoi primi fedelissimi Civati, Richetti, Faraone e Giachetti, mette su la sua kermesse personale: la Leopolda. È accusato di protagonismo, esibizionismo, personalismo. Lui va avanti e nel 2012 si candida alle primarie contro Bersani, Vendola, Puppato e Tabacci. Renzi prova a fare sue le parole di Gandhi ("Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci"), ma non riesce a metterle in pratica. Supera il primo turno con il 35,5% dei voti, ma al ballottaggio viene battuto da Bersani (60,9% contro 39,1%). In mezzo l'attacco del bersaniano Fassina, che lo accusa di avere copiato il programma dal suo avversario. Matteo smentisce e azzanna: "È Pierluigi ad averlo copiato da me". Sipario. Le tende si riaprono nel 2013, quando Renzi critica le candidature al Quirinale di Finocchiaro e Marini. Loro gli rispondono male, la maggioranza del partito ancora peggio. Poi succede il patatrac. 101 traditori, sembra aizzati da Renzi, boicottano Romano Prodi. Non sarà il "professore" a prendere il posto di "Re" Giorgio Napolitano.

Altri attacchi, altre accuse. Critiche e polemiche. Matteo le dribbla, pur non essendo abile con i piedi. Ma ha intelligenza politica, capisce che è il momento per prendersi il partito. Lo fa sconfiggendo Civati e Cuperlo alle primarie dopo le dimissioni di Bersani. Il 67,5% dei voti espressi dalla base Pd lo ringalluzzisce. Tenta il tutto per tutto. Fa ancora il sindaco di Firenze ma il suo obiettivo è Palazzo Chigi.

C'è Letta? Non importa. Lo fa liquidare con un voto a larghissima maggioranza della Direzione Pd, che controlla come fosse il giardino di casa sua. Il 22 febbraio 2014 giura da primo ministro. È fatta. Il suo governo sarà il quarto più lungo della Repubblica. Jobs act, unioni civili, "Buona scuola". Poco prima, il clamoroso 40,8% alle Europee. Ha l'Italia in mano, ma se la fa sfuggire dalle dita. Fa approvare la nuova legge elettorale, l'Italicum, a colpi di fiducia. La Corte Costituzionale gliela boccerà (in parte). Poi, credendosi un abile giocatore di poker, fa all-in. 4 dicembre 2016, referendum sulla riforma costituzionale boschiana. Una parte del Pd la boicotta, con lei una larga fetta del Paese. Renzi perde, la sua stella si eclissa rapidamente. Si dimette da premier e da segretario, poi viene rieletto al Nazareno sconfiggendo Orlando ed Emiliano. Ma ormai il pugile Renzi è alle corde.

Arrivano jab da tutte le parti. Specie da sinistra: D'Alema ("Matteo sarebbe un ottimo presentatore Tv", "A sinistra non servono finanzieri della Leopolda"), Bersani ("Ha avuto il lanciafiamme in mano fin da piccolo", "La nostra uscita dal Pd? Canagliesco incolparci), il vecchio amico Civati ("Renzi e Di Maio sono l'uno la caricatura dell'altro") e financo Franceschini ("Renzi ha messo i 5 Stelle in braccio a Salvini").

Critiche agli occhi dei giornalisti, insulti inaccettabili alle orecchie del rottamatore rottamato. Che ora prova a tornare al passato. (Ri)vestendo i panni del rottamatore. Prima di Conte, del Pd o della sinistra? Si vedrà.

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