Quella Mezzaluna sul giubbotto e il giallo della divisa islamista

La foto di Silvia appena liberata con indosso le insegne turche. Diffusa da Erdogan per attribuirsi ogni merito

Quella Mezzaluna sul giubbotto e il giallo della divisa islamista

La fattura per i servizi resi dal Mit, l'agenzia d'intelligence turca, è già pronta. A recapitarcela ci ha pensato Anadolu, l'agenzia di stampa di Ankara diffondendo la foto di Silvia Romano con addosso un giubbotto antiproiettile con tanto di mezzaluna, stella e scritta in turco. Un'immagine più efficace di mille parole. Un'immagine destinata a far capire come il prelevamento dell'ostaggio e la successiva consegna agli italiani sia merito esclusivo degli 007 di Ankara. Le insegne della Turchia sul giubbotto antiproiettile rappresentano un vero e proprio messaggio in codice. Soprattutto perché nessun agente segreto in azione al di fuori dai propri confini userebbe attrezzature con il marchio di provenienza. E infatti ieri sera fonti dell'Aise (Agenzia informazione per la sicurezza esterna) - i nostri servizi responsabili delle operazioni all'estero mettevano in dubbio l'autenticità della foto spiegando che quel giubbotto è una «dotazione rigorosamente italiana» fornita a Silvia Romano «nell'immediatezza senza alcun simbolo». Quindi «non è da escludersi che quella foto sia un fake».

La disputa dimostra quanto la collaborazione con la Turchia possa rivelarsi scivolosa. Se a sole 48 ore dall'operazione già girano foto capaci di screditare l'operato italiano cosa potrebbe saltar fuori nel caso rifiutassimo di assecondare richieste compromettenti per i nostri interessi nazionali? La presunta collaborazione con Ankara rischia dunque di diventare autentica sottomissione in zone come la Libia dove Erdogan punta a scipparci il ruolo di potenza di riferimento. Un obbiettivo già conseguito in quella Somalia dove fino al 1991 eravamo il partner occidentale di riferimento. In tutto questo complesso meccanismo ci sono anche elementi capaci d'infastidire l'amministrazione statunitense e i vertici della Cia. Il primo riguarda la collaborazione a tre tra intelligence italiana turca e somala. Per capirlo basta ricordare le origini del Nisa, i servizi segreti del governo federale della Somalia. A riorganizzarli e a rimetterli in piedi sono stati nel 2013 gli uomini di Langley. Gli 007 americani possono quindi vantare una sorta di diritto di primogenitura su tutte le loro operazioni. Soprattutto se svolte in collaborazione con un alleato stretto come l'Italia e uno ibrido come la Turchia sospettato di collusioni con il terrorismo fondamentalista. In casi come questi una richiesta di via libera da parte italiana è quasi obbligatoria. Un'eventuale omessa comunicazione può invece crearci problemi con un alleato americano che vede in Al Shabaab un nemico non dissimile da Al Qaida e Stato islamico. Un nemico colpito più volte con raid aerei e con cui non sono contemplati negoziati. Non a caso nel gennaio 2012 fu un raid dei Seal, le forze speciali Usa, a portare in salvo la cittadina americana Jessica Buchanan e il danese Poul Hagen Thisted rapiti da Al Shabaab nel Nord della Somalia. A rendere ancor più acuto il fastidio americano può contribuire la disinvoltura con cui il governo italiano ha lasciato trapelare le indiscrezioni sul pagamento del riscatto. Del resto avendone affidato il recapito a turchi e somali difficilmente poteva andar diversamente.

In questi casi la parte più complessa è sempre il conteggio dei soldi consegnati a mediatori e terroristi. E infatti già nell'ottobre 2015 un video diffuso da Al Jazeera sbugiardò l'Italia mostrando le mazzette da 11 milioni di dollari consegnate ai terroristi di Al Nusra in cambio della liberazione di Greta e Vanessa rapite in Siria nel 2014. Una consegna avvenuta anche in quel caso con l'aiuto di emissari turchi. Dunque nonostante l'amministrazione Trump si stia dimostrando più flessibile nelle trattative per la liberazione dei propri ostaggi, la Farnesina sarà quasi sicuramente chiamata a fornire chiarimenti. E i vertici dell'Aise non potranno fare a meno di sottoporre un dettagliato resoconto alla Cia.

Intanto, c'è chi ipotizza che l'abito indossato da Silvia sia qualcosa di più un abbigliamento somalo. Ne è convinta Maryam Ismail, somala fuggita anni fa in Italia, sorella dell'ambasciatore della Somalia all'Onu ucciso nel 2015 da un gruppo terroristico.

Che spiega: «Non mi piacciono le discussioni sul suo abito che non ha nulla di somalo, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza. Come non mi piace la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura».

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