A Miami tra ville e cubani Qui riparte l'economia Usa

È la vera capitale del Sudamerica, un incredibile covo di spie. Moltiplica ogni giorno affari e speranze. Ma cova mille paure

A Miami tra ville e cubani Qui riparte l'economia Usa

C'è qualcosa di indecifrabile in questa città, sempre più estranea agli americani di lingua inglese. Arrivo dalla I-95 su una Chevy a noleggio e capisco finalmente il modello di questa megalopoli fluttuante: alla Los Angeles di Blade Runner , il film cult del 1982 in cui Ridley Scott filmò una Babele post futurista delle lingue e delle identità. Più che mai oggi Miami è ispanica, declassando con una certa superbia la lingua inglese al rango di idioma burocratico. Domina su tutti suoni umani il castigliano di Cuba in cui sono state limate quasi tutte le consonanti fino a diventare un impasto di vocali fluide, talvolta irate, talvolta seducenti. I cubani di Miami, e della Florida in generale, formano ormai diversi strati di cui il più antico è quello dei rifugiati dopo la presa del potere di Fidèl nel 1959, quando scese dalla Sierra col Che e i suoi barbudos , fucilando al ritmo dei cha-cha-cha rivoluzionari.

Nei primi anni Sessanta gli americani organizzarono un ponte aereo che ricordava quello per Berlino per mettere in salvo a Miami una classe affaristica cubana di dubbia reputazione, compromessa negli affari del dittatore Fulgencio Batista e delle sue case da gioco. Da allora sono arrivate da Cuba trecentomila persone, compresi i criminali ergastolani che Fidel Castro spedì malignamente sul suolo statunitense. Oggi i cubani espatriati sono per neo laureati, moltissimi medici, agricoltori e gente comune in cerca di lavoro ed esasperata dal nuovo potere poliziesco, dalla corruzione post rivoluzionaria e dall'arroganza del partito che, dichiarandosi comunista aveva messo al bando gli americani sostituendoli con i militari russi.

A Natale Miami pullula di europei. Turisti vocianti, e poi quelli che vengono per restare. Gente che affolla i ristoranti di lusso, esemplari chiassosi del vecchio mondo. L'ultima ondata massiccia è quella dei francesi, seguiti dagli italiani che formano una comunità intraprendente e ricca. Risuonano poi anche accenti gotici non soltanto tedeschi ma svedesi, danesi, e ovviamente quelli dei russi che fino a poche settimane fa sbancavano le agenzie immobiliari e che adesso sono storditi e frustrati dalla crisi del rublo. L'effetto complessivo è armonicamente caotico: una emulsione umana instabile che cova tutte le tendenze, i rancori e le speranze del mondo e dei Caraibi davanti a un tratto di mare che arriva fino alle cattedrali barocche cubane e alle isole Keys, sui cui scogli si fracassavano i galeoni pieni di tesori. «Miami-Babele» è ormai la vera capitale dell'intero Sud America, un po' come New York è l'ultima città europea oltre l'Atlantico.

Ma la storia di questo rutilante agglomerato a skyline variabile è unica e terribile: ancora all'inizio del Novecento qui si combatteva l'ultima delle tre sanguinose guerre indiane col popolo dei Seminoles sceso dal Nord e che poi si ritirò nelle paludi dell'Everglades. Durante la prima di quelle tre guerre agricoltori e pescatori di Miami finirono sgozzati e la collettività stava per collassare. Poi l'economia partì e il villaggio sulle rive del fiume Miami mise radici, senza mai superare il mezzo milione di abitanti in città. Oggi, si contano quasi cinque milioni sparsi nell'area metropolitana che si riempie e si vuota secondo le stagioni.

Da qualche mese è ripartita dunque la macchina che fabbrica ricchezza. Scendendo da Palm Beach e da Fort Lauderdale incontri cantieri e nuove catene di negozi, di supermercati, enormi librerie Barnes and Noble mentre si moltiplicano i bazar alimentari italiani alla moda. Per Natale Miami ha digerito tonnellate di mozzarelle di bufala arrivate dalla Campania, una quantità di parmigiano per produrre il quale non basterebbero tutte le grandi aziende italiane e migliaia di prosciutti San Daniele che hanno soppiantato qualsiasi altro affettato locale, sicché la parola «ham» è stata sostituita dall'italiano « prosciuto » pronunciato con una sola «t». Poi, naturalmente, quantità industriali di pesto, di spaghetti, rigatoni, conchiglie, prodotte spesso da marche con nomi di fantasia, ma dal suono italianizzante, senza parlare delle botti di Chianti, Barolo, Gavi e vini siciliani e sardi.

La straordinaria novità di tanta opulenza è stata certificata pochi giorni fa: il Pil americano ha sfondato i cinque punti di crescita annua, ha portato il Paese fuori dalla crisi e l'economia riprende a volare staccando brutalmente quella europea. Passeggiando a gomitate lungo l'oceano si sentono gli accenti marcati dei venezuelani fuggiti dall'impero autoritario petrolifero di Chavez, come anche i brasiliani, i colombiani, i messicani, i peruviani e gli spagnoli di Spagna, trattati con una certa freddezza dai cittadini delle loro ex colonie. Nel complesso, gente ricca sfondata, che ha a Miami la seconda casa e magari la terza a Miami Beach, che è oggi un'altra città separata, orgogliosa di uno dei più bei quartieri liberty d'America latina.

La comunità cubana è dilaniata dall'annunciata ripresa dei rapporti diplomatici fra Washington e l'Avana, cosa che ha suscitato festeggiamenti e paure profonde. Gli anticastristi si sentono traditi e la tensione è altissima. Migliaia di cubani ormai americani sono furiosi con Obama ai loro occhi colpevole di non aver imposto a Raoul Castro concrete garanzie di democrazia e libertà. Alla fine, dicono con rabbia, si rafforzerà l'esangue regime dei fratelli Castro che sogno di trasformare l'isola in una piccola Cina caraibica: quattrini a palate, ma sotto il ferreo controllo del Partito comunista. Agenti cubani sono arrivati a Miami, agenti degli immigrati sono corsi all'Avana sicché Miami è più che mai la capitale delle spie, di doppi agenti castristi e anticastristi sicché l'incertezza è palpabile quanto l'angoscia di sentirsi esclusi ed espropriati. Miami porta nel suo ventre molte altre paure e molti antichi rancori. Te ne rendi conto incontrando i manifestanti davanti alla Freedom Tower di Biscanyne Boulevard: capannelli che manifestano quasi ogni giorno contro le morti per mano della polizia di Michael Brown a Ferguson, di Erich Garner a New York e di Israel «Reefa» Hernandez proprio qui, in Miami City. Il traffico rallenta, i turisti americani che arrivano in macchina dopo viaggio durato giorni (in macchina perché portano tonnellate di bagagli e grossi cani di campagna) si affacciano a parlare con gli uomini neri della Foundation Life Church di Miami Gardens: « No justice, no peace» è lo slogan, niente pace senza giustizia. Il pastore Wayne Lomax spiega nei suoi sermoni da marciapiede: «Vogliamo una protesta pacifica. Vogliamo che nei manuali d'addestramento della polizia sia incluso il rispetto delle minoranze».

Poi la diradata megalopoli si getta sui piatti di carne che invadono tutte le tavolate natalizie, carne di agnello e di maiale, di manzo e pollame, perché i latinos non amano molto le verdure, se non stufare e

infarcite di polpette, ragù, carne asada, con preoccupanti inondazioni di vino, birra, vodka, mentre gli altoparlanti urlano Guantanamera, Paloma, e qualche vecchio motivetto castrista sul ritmo degli anni Sessanta.

(1. Continua)

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