Scendono in piazza a Budapest e sono oltre diecimila per il tradizionale Gay Pride, il ventiseiesimo in Ungheria. «Non siamo più in epoca comunista, questa è l'Ue e tutti dovrebbero poter vivere liberamente» spiega Istvan, 27 anni, in marcia con il suo fidanzato. L'adunata quest'anno più che mai rappresenta un atto di resistenza della comunità Lgbtqi alle politiche anti-gay del primo ministro sovranista Viktor Orbán. Con il referendum annunciato quattro giorni fa sulla legge per la difesa dei minori, che dall'8 luglio vieta la diffusione agli under 18 di contenuti sui temi legati al mondo omosessuale, il primo ministro spera di chiamare a raccolta la maggioranza silenziosa contro la minoranza rumorosa in piazza ieri nella capitale.
Il premier è imbufalito per la procedura d'infrazione aperta dall'Unione europea, secondo cui la norma è discriminatoria e viola i valori di tolleranza e libertà individuale tutelati da Bruxelles. Budapest ha due mesi di tempo per rispondere alle accuse, ma intanto la Ue ha congelato l'approvazione dei 7,2 miliardi del Recovery Fund ungherese, un modo per fare pressione sull'esecutivo di Budapest, non si ancora per quanto visto che non si riesce a trovare un accordo nemmeno sul periodo di estensione necessario a fornire i nuovi elementi di valutazione. La trattativa resta dunque aperta, probabilmente in attesa di capire cosa succederà sul fronte dei diritti.
Perciò l'ultranazionalista Orbán coglie l'occasione del Gay Pride per lanciare un nuovo attacco alle istituzioni europee e difendere la chiamata alle urne con cui chiede agli ungheresi di appoggiare in maniera chiara la legge votando cinque «no». «Se Bruxelles non ci attaccasse, non ci sarebbe bisogno di un referendum», spiega Orbán, confermando che il voto è un guanto di sfida lanciato all'Unione. I toni del leader dell'estrema destra del partito Fidesz si fanno ancora più pesanti quando si parla dei soldi in attesa da Bruxelles: «Ci stanno ricattando e minacciando. Avviano procedure di infrazione, ritardano il pagamento dei fondi che meritiamo». Ma ecco l'appello agli ungheresi: «In questa situazione ci sono due opzioni: cedere o meno - spiega Orbán - Poiché si tratta dei nostri figli, si tratta del futuro dei nostri figli, non dobbiamo arrenderci», ha detto parlando alla radio di stato Kossuth Radio. Da qui la richiesta di fermare i «burocrati» di Bruxelles. «Abbiamo bisogno che ogni ungherese partecipi al referendum. Se c'è il sostegno popolare, possiamo fermare Bruxelles, proprio come con il referendum sulle quote dei migranti». Nel 2016 non si raggiunse il quorum, votò il 43,2%, ma il primo ministro sventolò il 98% di voti anti-migranti per continuare a far pressing sulla Ue contro la politica di apertura.
Intanto, mentre pronuncia le solite parole di sfida alla Ue, si scopre dalla Gazzetta ufficiale ungherese che il primo ministro ha deciso: non accetterà gli aiuti del Recovery Fund se saranno subordinati all'abolizione della legge. La famiglia (intesa dal premier come l'unione di un uomo e una donna) prima di tutto. Ma soprattutto i bambini prima di ogni cosa, è il senso di ogni intervento del leader ungherese rivolto ai suoi elettori e alla pancia più tradizionale del Paese.
«Secondo il mainstream occidentale e liberale spiega ancora Orbán - la vera libertà può essere raggiunta solo liberandosi della propria sessualità ma gli ungheresi non la pensano così. Gli ungheresi credono che ci siano adulti e bambini. Mentre gli adulti sono liberi di fare ciò che desiderano, entro i limiti della legge, i bambini sono una questione diversa».
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