"Le milizie puntano al riconoscimento. Ma il loro regime è infrequentabile"

L'ex ministro degli Esteri liquida le avances all'Italia: "Cercano sponde per scongelare i 9 miliardi di riserve Fed. Però non sono cambiati"

"Le milizie puntano al riconoscimento. Ma il loro regime è infrequentabile"

«I talebani cercano di vendere all'Italia e all'Occidente un'immagine accettabile. Ma il loro regime non è frequentabile da chi, come l'Italia e l'Unione Europea, ha tra i propri obbiettivi la promozione dei diritti umani, l'emancipazione delle donne e la difesa dei diritti dei bambini». L'ex ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant'Agata liquida così - in quest'intervista a Il Giornale - le «avance» del portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid che su «Repubblica» auspicava un riconoscimento dell'Emirato Islamico da parte dell'Italia. «I capi talebani - spiega Terzi - puntano al riconoscimento o a un modus vivendi con l'Occidente per garantirsi lo sdoganamento di oltre 9 miliardi di riserve valutarie congelate presso la Riserva Federale di New York. Quel riconoscimento gli garantirebbe un posto alle Nazioni Unite e nelle varie organizzazioni internazionali oltre agli aiuti per lo sviluppo».

Ma gli aiuti non servono ad evitare sofferenze ai civili?

«È la stessa tesi di chi biasima le sanzioni all'Iran, accusandole di colpire i civili e sostiene, invece, la necessità di far affari con Teheran dimenticando che significa avvallarne la corsa al nucleare. Garantire aiuti ad entità statuali che sfuggono a qualsiasi controllo nei confronti del donatore è una follia. Così gli aiuti rischiano di accrescere le loro capacità militari o di finire nelle tasche dei loro capi».

Secondo lei i talebani sono gli stessi di 20 anni fa?

«L'immagine dei talebani evoluti e pronti al rispetto dei diritti umani non è credibile. Non sono diversi da quelli che guidarono il paese dal 1996 al 2001. I loro capi provengono tutti da quell'esperienza. Il mullah Baradar era un compagno di fede e militanza del mullah Omar e fondò con lui il movimento. La dinastia degli Haqqani, presente ai vertici talebani, è un clan terroristico. L'Emiro Akhundzada era già nel passato regime ed è pronto ad assumere una carica di Guida Suprema analoga a quella dell'Ayatollah Khamenei ai vertici della Repubblica islamica».

Alla lunga bisognerà parlarci

«Chi spaccia per real politik il dialogo senza remore o condizioni con formazioni terroriste, stati falliti e organizzazioni criminali interpreta molto male gli insegnamenti di Henry Kissinger. L'autentica real politik si realizza con un lento, invisibile lavoro che non prevede il patteggiamento con quelle entità, bensì il loro condizionamento attraverso una capillare opera di pressione».

Gli americani già ci parlano

«Questo è un serio problema. L'amministrazione Biden aveva ragione nel sostenere la necessità del disimpegno, ma serviva un disimpegno progressivo, non un'uscita repentina e disastrosa. Il rischio è che l'operazione si ripeta con il ritiro dall'Iraq. E peggio ancora che l'amministrazione Biden cerchi di coprirlo ammantandolo sotto la coperta di un nuovo accordo sul nucleare con l'Iran. Ci ritroveremo così con un Iraq regalato all'influenza iraniana e un accordo di carta straccia simile a quello già firmato da Obama».

La Cina vince il Grande Gioco e i talebani ne incassano i soldi?

«I soldi sono stati già garantiti a fine luglio durante la visita di una delegazione talebana in Cina. In cambio Pechino ha ottenuto l'impegno talebano a non appoggiare gli uighuri dello Xinjiang. Una promessa facile da ottenere visto che i Pashtun, vero nucleo tribale talebano, han poco da spartire con gli uighuri. Ma Pechino guarda anche ai tremila miliardi di risorse minerarie dell'Afghanistan e al progetto di linea ferroviaria che la collegherà all'Iran attraversando la Kirghizia, il Tajikistan e lo stesso Afghanistan.

Per non parlare dell'asse privilegiato con Teheran. Un asse, al riparo da sanzioni, su cui scorrerà il greggio degli ayatollah. E dove il Pakistan, grazie all'alleanza con Cina e Emirato, si ritroverà in vantaggio rispetto al nemico indiano».

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