Muore all'estero senza perché. Non c'è reato grazie alla sinistra

La scelta dei governi Ciampi e Letta ostacola i processi. E la moglie scrive a Mattarella: "Giustizia dopo 12 anni"

Muore all'estero senza perché. Non c'è reato grazie alla sinistra

«Signor presidente, mi chiamo Siham Ragheb, sono nata a Beirut ma sono italiana». Inizia così la lettera già inviata al capo dello Stato Sergio Mattarella (che il Giornale ha potuto consultare) da una donna che ha perso il marito all'estero ma ancora non sa né quando né perché. E purtroppo per lei non lo sanno neanche i magistrati italiani che si sono occupati del caso e che si sono praticamente arresi, chiedendo l'archiviazione di un caso che solo il coraggio e la determinazione dei legali della famiglia sta tenendo in piedi. Quando si parla della riforma della giustizia, di separazione delle carriere e di valutazione dei magistrati bisogna ricordarsi quanto le vite delle persone dipendano non solo dalle scelte di chi indaga e di chi deve giudicare, ma anche da alcune scappatoie giuridiche.

Oreste Angioi era scappato da Ottana (Nuoro) per dare un futuro ai suoi tre figli, ma nelle 24 ore tra il 14 e il 15 marzo del 2010 nella città kazaka di Atyrau è morto di ischemia mentre lavorava come capo cantiere in Kazakhstan per una società legata a Eni, in conseguenza di un'ischemia del cuore - secondo quanto attestato dal «certificato di morte» rilasciato in lingua kazaka e tradotto dall'ambasciata italiana - non si sa se per il clima proibitivo o per i gas sprigionati durante la perforazione dello strato di crosta terreste.

La spada di Damocle che pende sulla causa civile a Novara (dove era incardinata anche quella del lavoro, poi trasferita davanti al giudice ordinario civile) è l'abolizione di un articolo - il 54 del Dpr n. 1124/1965 - e la seguente giurisprudenza penale che ha via via indebolito (degradato a illecito amministrativo nel 1993 dal governo di Carlo Azeglio Ciampi, abrogato nel 2013 sotto il governo di Enrico Letta e reintrodotto in una irrilevante versione depenalizzata il 22 marzo 2016 da Matteo Renzi) il reato di mancata denuncia dell'infortunio mortale di un lavoratore italiano all'estero.

La denuncia penale è stata presentata alla procura di Nuoro e da lì trasferita a Napoli per ragioni di competenza. Alla procura i legali avrebbero dato prove documentali inoppugnabili, inclusa l'incertezza basilare sulla data della morte 14 o 15, che di per sé dovrebbe essere fonte di indagine visto il giallo della mancata presentazione della denuncia ex articolo 54 che avrebbe dovuto portare di per sé alla condanna del datore, visto che l'obbligo di denuncia nel 2010, seppur depenalizzato, c'era. Dunque, o il datore fornisce una ricostruzione del fatto credibile, mentre sul piano civile dovrebbe implicare la condanna. Sta di fatto che il balletto sulla vera data di morte e la mancata trasmissione della denuncia «ha di fatto impedito che potesse essere disposto l'eventuale esame autoptico», si lamenta il legale Luigi Pisanu, per cui «è impossibile accertare l'effettiva causa del decesso». Ma dalle buste paga e da alcune documentazioni in possesso della famiglia, emergerebbe che l'uomo avrebbe più volte rinunciato al riposo settimanale a fronte di uno straordinario pagato in modo forfettario. E secondo i legali, nel «giudizio di idoneità lavorativa alla mansione specifica» previsto dalla legge 81 del 2000, ovvero il Testo unico sulla salute e sicurezza nel lavoro, c'era espressamente scritto che per una fibrillazione atriale già diagnosticata l'Angioi avrebbe dovuto «evitare lavori in altezza» e «in condizioni di discomfort termico» nonché avrebbe dovuto evitare «sforzi fisici». Una prescrizione che la società per cui l'uomo lavorava conosceva perfettamente, come si evince da altri documenti esibiti in giudizio. Eppure stando ai legali l'uomo avrebbe lavorato anche per 14 giorni consecutivi, a temperature che oscillavano tra i -40° dell'ambiente esterno e i +20° degli uffici dove gli operai rientravano di tanto in tanto per riossigenarsi. Ma senza prove né i pm né l'Inail (che paga e poi si rivale sul datore di lavoro) hanno margini per capire cosa sia realmente successo, né gli eredi del lavoratore possono chiedere alcun risarcimento. In realtà, spiegano i legali, il risarcimento dovrebbe essere automatico, perché il datore di lavoro stesso - a rigor di legge - le circostanze dettagliate della morte avrebbe dovuto indicarle nella denuncia che non c'è stata, dunque dovrebbe essere decaduto dal provare il contrario. I giudici lo sanno bene, ma fanno gli gnorri».

Negli anni Settanta alcuni dirigenti del ministero del Lavoro andavano in Svizzera, Francia, Belgio o Olanda a verificare di persona le condizioni di lavoro dei nostri connazionali, per lo più veneti, calabresi e siciliani, che lasciavano i campi per morire nelle miniere di Marcinelle mentre si costruiva l'Europa che conosciamo oggi. Erano gli anni in cui in qualche bar c'era ancora scritto «ingresso vietato ai cani e agli italiani». A più di 50 anni dalle intuizioni di Benigno Zaccagnini e grazie ai colpi di spugna dei governi di sinistra chi muore all'estero non ha giustizia.

«La brutta politica produce norme ingiuste», scrive Siham Ragheb, la moglie di Angioni. Che a Mattarella chiede un incontro per modificare la legge: «Per la memoria di mio marito, per i miei figli, perché tutto non sia consegnato all'oblio e all'ingiustizia».

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